Il nucleare: un po’ di storia.

Non è semplice trovare una scoperta scientifica che abbia avuto un impatto più grande sulla popolazione e sulla politica mondiale di quello dell’energia nucleare. L’umanità ha preso coscienza di questa nuova forma di energia il 6 agosto 1945 quando si diffuse nel mondo la drammatica notizia dell’esplosione di una bomba nucleare sulla città giapponese di Hiroshima (80.000 morti immediati).

La storia del nucleare ha inizio 1916 con il fisico tedesco Albert Einstein attraverso la teoria della relatività ristretta, principio di equivalenza massa-energia, espressa nell’equazione:

                                                                    E = mc²

in cui :

E è l’energia, espressa in joule; m è la massa, espressa in chilogrammi; c² è la velocità della luce al quadrato, espressa in m/s;

la quale rappresenterebbe il fondamento teorico dell’energia nucleare. Questa formula suggerisce in linea di principio, la possibilità di trasformare direttamente la materia in energia o viceversa. Einstein non vide applicazioni pratiche in questa scoperta. Intuì però che il principio di equivalenza massa-energia poteva spiegare il fenomeno della radioattività, ovvero che certi elementi emettono energia spontanea, e una qualche reazione che implicasse l’equivalenza poteva essere la fonte di luminosità che accende le stelle. L’idea che una reazione nucleare si potesse anche produrre artificialmente, cioè sotto forma di reazione a catena, fu sviluppata in seguito alla scoperta del neutrone che avvenne 1932 quando il fisico Chadwick ottenne la conferma sperimentale della sua esistenza (scopriremo che i neutroni sono di fondamentale importanza per indurre il processo di fissione con successiva liberazione di energia).

Nel 1934 il gruppo di fisici italiani (i ragazzi di via Panisperna) diretti da Enrico Fermi bombardano sperimentalmente alcuni atomi con i neutroni e, quasi inconsapevolmente, realizzano la prima rudimentale fissione nucleare.

Nel 1938, si capì che, bombardando con neutroni il nucleo di certi tipi di atomi, come l’uranio, si poteva indurne lo divisione (in termine tecnico: la «fissione»), con la produzione di energia. Si apriva in tal modo la possibilità di sfruttare a nostro piacimento le gigantesche quantità di energie presenti nei nuclei. Si ebbe un’idea che si dimostrò fatale: si sarebbe potuto sfruttare l’atomo per nuove e dirompenti applicazioni nel settore militare, grazie alla cosiddetta reazione a catena. Prendeva piede la possibilità di una “superbomba” dalla potenza sino ad
allora inimmaginabile, davvero fantascientifica per quei tempi. Con questa prospettiva, essendo ormai alla vigilia della seconda guerra mondiale, fu inevitabile che gli studi sul nucleare, fino a quel momento compiuti in competitiva collaborazione tra gruppi delle diverse nazioni, venissero secretati; non si poteva certo permettere che stati nemici potessero avvantaggiarsi, imparando a gestire reazioni che generavano cento milioni di volte più energia rispetto alla classica reazione chimica impiegata nell’esplosivo tradizionale di dinamite o tritolo.
In questa corsa alla bomba, come è noto, il successo arrise agli Stati Uniti. Il loro programma nucleare militare, battezzato Progetto Manhattan, iniziò nel 1942 (spinto anche da una lettera scritta da Einstein al Presidente Roosevelt) e godette di risorse mai viste in precedenza in nessun settore tecnico-scientifico. Sotto la direzione del fisico Robert Oppenheimer e con il fondamentale contributo di Fermi, i più brillanti esperti mondiali di fisica si impegnarono nella più audace e difficile applicazione concreta degli studi scientifici. Il risultato del loro lavoro si ebbe già nell’estate del 1945, quando le esplosioni atomiche, prima nel deserto di Alamogordo nel New Mexico e, poco dopo, sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, cambiarono per sempre il modo di immaginare la guerra, che divenne improvvisamente capace di uccidere in un istante milioni di persone.

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La potenza del nuovo ordigno lo rendeva però inadatto a discriminare tra personale militare e popolazione, rendendo così il conflitto ancor più sanguinario e con effetti sempre più gravi per i civili, che per le leggi internazionali dovrebbero essere protetti.

La prima bomba al plutonio (nome in codice “The Gadget”) fu fatta esplodere nel “Trinity test” il 16 luglio 1945 nel poligono di Alamogordo, in Nuovo Messico. La prima bomba all’uranio (“Little Boy”) fu sganciata sul centro della città di Hiroshima il 6 agosto 1945. La seconda bomba al plutonio, denominata in codice “Fat Man“, fu sganciata invece su Nagasaki il 9 agosto 1945. Questi sono stati gli unici casi d’impiego bellico di armi nucleari, nella forma del bombardamento strategico.

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L’Unione Sovietica recuperò abbastanza rapidamente il ritardo e sperimentò la prima bomba a fissione il 29 settembre 1949, ponendo così fine al monopolio degli Stati Uniti d’America. La Gran Bretagna, la Francia e la Repubblica Popolare Cinese sperimentarono un ordigno a fissione rispettivamente nel 1952, nel 1960 e nel 1964. Le testate nucleari, basate sia sul principio della fissione nucleare che della fusione termonucleare possono essere installate, oltre che su bombe aeree, su missili, proiettili d’artiglieria, mine o siluri.

Nel 1954 il presidente degli Usa, Eisenhower, inaugurò il progetto “Atom for Peace”, allo scopo di favorire l’applicazione civile dell’energia nucleare. In soli 12 mesi venne realizzata la prima centrale nucleare della storia, il reattore civile Borax III in grado di fornire energia elettrica a una piccola città dello Stato dell’Idaho (Usa).

Dopo che Enrico Fermi aveva trovato il modo di «addomesticare» la reazione a catena, facendola procedere in modo controllato, si realizzarono le prime centrali nucleari, il cui scopo iniziale fu esclusivamente militare: creare artificialmente un materiale non presente sul pianeta Terra, il plutonio, che ci si aspettava avesse caratteristiche ottimali per produrre bombe atomiche. Solo vari anni dopo la guerra, nei primi anni ’50, ci si impegnò per la realizzazione di centrali civili, capaci di produrre calore e soprattutto elettricità. Nacquero a quel punto tanti sogni (che oggi possiamo definire ingenui), che promettevano di fornire energia illimitata e a costi irrisori ad un’umanità attonita di fronte all’enorme potenza dell’atomo. Ma si posero anche le radici per alcuni
incubi che ancora ci accompagnano al giorno d’oggi.

Definizioni
neutrone

Il neutrone è una particella elementare che agisce come «collante» per i protoni responsabili della carica positiva dei nuclei, che altrimenti, per repulsione elettrostatica, non potrebbero restarsene assieme. Non avendo carica elettrica (da cui il suo
nome) può venir utilizzato come efficace sonda per giungere fin nel cuore dell’atomo,
dove può venirvi catturato oppure viceversa causarne la spaccatura. Questo ha permesso di produrre tanto le bombe quanto i reattori nucleari.

Fissione nucleare

Nella fissione nucleare si parte con un nucleo di un atomo (adatto), contro cui si spara un neutrone di energia appropriata per riuscire a spaccarlo (fenomeno della fissione) con la liberazione di grandi quantità di energia. A seguito di questa rottura vengono anche liberati due o tre neutroni i quali, se si sono fatte le cose per bene (purezza dei materiali, densità adatta, …), possono indurre la fissione di altri nuclei circostanti. Si liberano così altri neutroni che possono continuare il processo, come in una valanga, fin quando tutti, o almeno una buona parte dei nuclei presenti, hanno reagito. Se la «reazione a catena» si sviluppa in modo incontrollato, selvaggio, si ha la bomba; se invece la si riesce a controllare, si può realizzare una centrale nucleare.

Combustibili fossili liquidi: petrolio.

Questo argomento può iniziare con un dato stravolgente: ogni secondo noi essere umani consumiamo circa 1.150 barili di petrolio ovvero oltre 183.000 litri ( un barile equivale a 159 litri). Ogni secondo! Riflette su questo dato. Il petrolio è la fonte energetica più importante e per alcune utilizzi è insostituibile, ma fino a quando riuscirà a far fronte alla crescente domanda di energia? Arriverà il giorno in cui la produzione di petrolio raggiungerà un picco per poi inesorabilmente diminuire con un conseguente aumento dei prezzi? C’è chi ritiene che il picco di produzione si raggiungerà tra una trentina d’anni. Alcuni studiosi prevedono scenari più ottimistici spostano questa data molto più in là nel tempo, basando le loro previsioni sull’esistenza di grandi quantità di petrolio a grandissime profondità o crede nello sfruttamento, ad esempio, delle sabbie bituminose. Altre tesi sostengono che il picco di produzione sia stato già raggiunto tra il 2005 e il 2010.

Distribuzione bacini petroliferi.


La distribuzione dei principali bacini petroliferi nel mondo non è uniforme, ma non è nemmeno casuale. Dipende, infatti, dalle condizioni geologiche necessarie alla formazione di grandi giacimenti. È necessario però specificare che è anche influenzata dalle difficoltà di esplorazione/ricerca di aree isolate e poco conosciute, come le zone caratterizzate da condizioni ambientali particolarmente severe (le vaste aree della Siberia, le aree di foresta pluviale del Sud America e aree offshore profonde).

La storia geologica del nostro Paese è molto complessa e ha dato alla penisola un assetto strutturale e sedimentario complicato e assai poco “tranquillo” ( l’Italia è una zona sismica). Questo non ha favorito la formazione di grandi ed estesi bacini petroliferi, ma ha creato localmente situazioni favorevoli alla formazione di piccole zone petrolifere di una certa importanza. I giacimenti di petrolio più importanti in Italia si trovano in Sicilia e nel suo immediato offshore (mare), in particolare il giacimento di Ragusa  e quello di Gela  e quello di Gagliano Castelferrato. Altri giacimenti, tra i più importanti, sono quelli dalla Val d’Agri in Basilicata e quello di Porto Orsini nell’Adriatico ravennate.

Petrolio greggio: Il suo nome deriva dalle due parole latine
petra=pietra e  olium=olio cioè è un olio di pietra.

APPROFONDIMENTO: microstoria del petrolio.

Il petrolio era noto fin dall’antichità più remota grazie al fatto che in alcune zone esso affiorava spontaneamente in superficie: gli Egizi ricavavano da esso la pece in cui immergevano le bende per fasciare le mummie; in Mesopotamia lo si utilizzava per impermeabilizzare le imbarcazioni; i Romani lo usavano per lubrificare le ruote dei carri; gli Indiani usavano il petrolio per curare malattie e ferite; i Cinesi e i Persiani lo usano per scopi bellici; presso molte popolazioni veniva usato come mezzo di illuminazione (lampade ad olio). Fu solo negli ultimi decenni del XIX secolo che il petrolio divenne una fondamentale fonte di energia, perché permise di risolvere il problema della propulsione dei veicoli su strada (più tardi anche gli aerei), poiché la macchina a vapore, alimentata a carbone, era troppo pesante ed ingombrante per automobili e motocicli. L’invenzione dei motori a combustione interna, agili e leggeri, alimentati da derivati del petrolio, permise di risolvere il problema. Lo sfruttamento intensivo dei giacimenti petroliferi cominciò negli Stati Uniti nel 1859, quando, per la prima volta, fu trivellato un pozzo che ne rivelò la presenza anche nel sottosuolo. All’inizio fu utilizzato per il riscaldamento e l’illuminazione, oltre che per ottenere bitume e lubrificanti. Il successivo impiego nei motori richiese la nascita di una grande industria di trasformazione, poiché il petrolio non può essere usato nei motori così come si trova. A partire alla fine del XIX secolo, agli impieghi suddetti si aggiunse l’uso del petrolio come combustibile nelle centrali termoelettriche. Si innescava quella che oggi chiamiamo Seconda Rivoluzione Industriale.

Il petrolio è una miscela di idrocarburi (perché composto da due soli elementi: il carbonio e l’idrogeno) che possono manifestarsi nei tre strati di aggregazione: solido, liquido e gassoso. Si trova generalmente dispersa entro masse rocciose porose e che contiene quantità di zolfo, azoto e ossigeno. È derivato dalla decomposizione di sostanze organiche formate da resti di organismi, accumulatisi in un ambiente per lo più marino e che costituivano nel loro insieme il plancton marino, insieme a fini sedimenti minerali, ad opera di batteri anaerobi (che operano in assenza di ossigeno). A temperatura ambiente, il petrolio si presenta come una miscela liquida infiammabile, densa e viscosa, oleosa, di colore scuro, che varia dal nero al rosso bruno a seconda della provenienza, con riflessi azzurri. l petrolio può manifestarsi spontaneamente in superficie, ma in generale viene estratto dal sottosuolo tramite pozzi ottenuti mediante trivellazioni del suolo o del fondo marino. Più leggero dell’acqua sulla quale galleggia, si trova nei piccoli spazi che esistono tra le rocce sedimentarie. Quindi possiamo immaginare un giacimento di petrolio come una spugna lunga alcuni chilometri e larga centinaia di metri, tutta impregnata di petrolio. La sua composizione media è 80% Carbonio, 10% Idrogeno, 3% Ossigeno, 4% Zolfo e 3% di Azoto.

Secondo le teorie più recenti, il petrolio si sarebbe formato nel corso di centinaia di milioni di anni per trasformazione chimica di alghe, plancton, animali e vegetali marini che si sono depositati sul fondo di acque salmastre come paludi, lagune, golfi e mari interni insieme con finissimi sedimenti minerali, come argille e sabbie formando il sapropel, una specie di “fango putrefatto”. L’instaurarsi di un ambiente privo di ossigeno, dovuto alla scarsa circolazione di acqua nei sedimenti argillosi, ha permesso a batteri anaerobi di sottrarre ossigeno e azoto alle sostanze organiche, arricchendole di carbonio e idrogeno. Successive modifiche, causate dall’aumento della pressione e della temperatura, causate dalle trasformazioni geologiche della Terra, hanno compattato e spinto il tutto a profondità maggiori. La pressione ed il calore del sottosuolo, in assenza di ossigeno, hanno favorito le reazioni chimiche da cui si originano idrocarburi liquidi e/o gassosi che hanno portato alla formazione del petrolio. Gradualmente, per effetto del peso dei sedimenti via via depositatisi, la crescente pressione ha determinato la solidificazione dei fanghi argillosi formando una roccia a grana fine: la “roccia madre petroligena”. In seguito, le rocce madri, sottoposte a elevate pressioni causate da movimenti tellurici, sono state praticamente distillate, per cui gli idrocarburi liquidi e solidi che si erano formati sono filtrati attraverso le fessure e le rocce permeabili circostanti e la risalita termina allorché gli idrocarburi hanno trovato uno sbarramento naturale rappresentato da rocce impermeabili in alto (ad esempio argille) e da vene d’acqua in basso: quelle che i geologi chiamano trappole petrolifere. A questo punto gli idrocarburi si sono accumulati nelle rocce porose (rocce magazzino) occupando tutte le cavità circostanti, secondo una precisa stratificazione la cui conoscenza è fondamentale nella prospezione dei giacimenti petroliferi. I magazzini e le trappole costituiscono i giacimenti petroliferi, che possono contenere idrocarburi solidi come i bitumi, idrocarburi liquidi come il petrolio e/o idrocarburi gassosi come il metano, sempre insieme all’acqua salmastra.

I giacimenti di petrolio sono dislocati un po’ dappertutto nel mondo, ma l’obiettivo è sempre quello di individuarne i più ricchi. La ricerca dei giacimenti petroliferi si effettua mediante diversi metodi che richiedono competenze diversificate come la geologia, la chimica e la sismologia: l’indagine geologica della superficie; il prelievo di campioni (il cosiddetto metodo del carotaggio); l’aerofotogrammetria, che consente di rilevare con rapidità i caratteri geologici e strutturali del territorio.

Per conoscere invece la successione degli strati in profondità per alcuni chilometri, ci si serve di vari metodi geofisici quali la prospezione magnetica e sismica. La localizzazione del giacimento è la prima operazione, seguita dalla determinazione della sua profondità e della sua estensione. Per la localizzazione nel sottosuolo della presenza di un giacimento, si scelgono territori ricchi di rocce sedimentarie, escludendo i territori con rocce vulcaniche o granitiche, e le fotografie aeree danno le prime indicazioni sulle caratteristiche geologiche del territorio. Altre preziose informazioni vengono fornite dall’analisi del terreno: con l’aiuto di sonde si prelevano, a diverse profondità, campioni di roccia cilindrica, detti “carote”. Dopo queste indagini preliminari, si utilizzano diversi sistemi di ricerca per individuare in modo più preciso la presenza di una trappola. Si possono, ad esempio, rilevare e studiare le variazioni della densità e del campo magnetico del terreno. Ciò consente di avere a disposizione dati significativi sulle caratteristiche del sottosuolo.

Un altro metodo di indagine del sottosuolo, con lo scopo di individuare quelle zone in cui è alta la probabilità di individuare un giacimento, è quello di effettuare l’analisi sismologia del terreno: l’analisi viene fatta provocando artificialmente onde sismiche nel sottosuolo, molto simili a quelle originate dai terremoti, facendo esplodere delle cariche e registrando i tempi impiegati dagli strati rocciosi a riflettere le onde con l’ausilio di strumenti chiamati geofoni. L’interpretazione dei dati raccolti permette la ricostruzione della struttura stratigrafica del terreno, in modo da delineare l’andamento dei vari strati rocciosi profondi e l’individuazione di ipotetici giacimenti. Per verificare la presenza del giacimento e permettere la successiva estrazione del petrolio è necessario scavare pozzi nel terreno e perforare la roccia che lo racchiude.

Solo dopo che i risultati delle ricerche sono stati esaminati a fondo, si decide di procedere all’esecuzione di pozzi di prova, si stabilisce la loro collocazione ed ha inizio la trivellazione di pozzi profondi anche qualche migliaio di metri, che raggiungono e superano gli strati di rocce impermeabili. Il primo pozzo petrolifero venne scavato da Edwin L. Drake in Pennsylvania, nell’agosto del 1859; da allora sono state eseguite milioni di trivellazioni, la maggior parte delle quali si trovano sulla terraferma, ma sono ormai numerose anche le piattaforme marine, collocate in zone un cui la profondità dl mare è limitata a 100–200 metri (in alcuni giacimenti si sono raggiunti e superati anche i mille metri di profondità). Per la trivellazione del pozzo si usa una sonda, costituita da una colonna di aste di acciaio cave alla cui estremità inferiore è avvitato un utensile da taglio, che può essere uno scalpello se il terreno da perforare è tenero, oppure rulli dentati conici i cui denti, se le rocce sono molto dure, sono costituiti da diamanti industriali o da carburo di tungsteno. Man mano che la perforazione prosegue, si aggiungono verticalmente altre aste, lunghe circa 9 metri, collegate fra loro con speciali manicotti. La batteria di aste è messa in rotazione da una piattaforma rotante a 100-250 giri al minuto collocata alla base della torre di perforazione “Derrick” (tipica torre a traliccio sopra il pozzo) ed azionata da potenti motori diesel, che forniscono l’energia meccanica necessaria. Al centro della torre gira la tavola rotante (sistema Rotary) che somiglia ad un tombino di fognatura di grandi dimensioni: quest’ultima presenta al centro un’apertura in cui passa verticalmente una grossa asta di acciaio cava. Quando la tavola rotante è messa in movimento dai motori diesel, anche questa asta, detta Kelly, gira.

Schema di pozzo di trivellazione.

Durante la trivellazione, un apposito fango di circolazione viene pompato all’interno delle aste cave, che scende fino allo scalpello e fuoriesce attraverso fori praticati nello scalpello, il fango poi risale in superficie nella intercapedine tra aste e pareti del pozzo fino ad un bacino superficiale dove viene filtrato e rimesso in circolo da una pompa di ciclo ininterrotto. Il fango di circolazione serve sia a raffreddare e lubrificare le punte dello scalpello sia a portare in superficie i frammenti di roccia e i detriti delle perforazioni, sia a consolidare le pareti del pozzo.La sagoma alta della torre è di notevole altezza per consentire il sollevamento di tre aste alla volta ogniqualvolta sia necessario sostituire lo scalpello, che si logora in breve tempo. Scoperta la falda petrolifera, cioè scoperto il giacimento, le aste e la sonda vengono estratti dal pozzo ed i pozzi vengono rivestiti con tubi alla cui estremità viene raccordato un sistema di condotte e valvole detto “albero di natale”, che regolano il flusso del petrolio greggio che esce dal pozzo. Finché la pressione all’interno del giacimento è maggiore di quella atmosferica, il petrolio sale spontaneamente, ma lo sfruttamento fa calare la pressione e, quando questa diventa inferiore rispetto alla pressione atmosferica, per portarlo in superficie, occorre adoperare delle pompe aspiranti. Le ricerche petrolifere effettuate in mare aperto hanno dimostrato la presenza di giacimenti sotto il fondo marino, ma la realizzazione di impianti per il loro sfruttamento è tecnologicamente complessa e costosa. Se il fondale è basso, si costruiscono piattaforme solidamente ancorate al fondo, sostenute da piloni in ferro, e la perforazione avviene come in terraferma; se la profondità del fondale è invece elevata, si costruiscono piattaforme galleggianti e rimorchiabili (jack up) o semi-sommergibili che, pur essendo ancorate, possono compiere ampi spostamenti. In questo secondo caso le tecniche di perforazione sono particolarmente complesse. Il petrolio estratto dal giacimento si chiama greggio ed è una sostanza molto densa ed oleosa, poco infiammabile, che non può essere usata direttamente. Il processo che permette l’uso di questa sostanza si chiama raffinazione.

Ma quanto è grande un pozzo di petrolio?

Dopo l’estrazione, il petrolio viene separato dal gas, dai detriti e dall’acqua  salata, con cui è miscelato nei giacimenti e viene trasportato mediante lunghissime tubazioni (oleodotti o pipeline, in inglese) nei centri di stoccaggio o di decantazione, dove viene immagazzinato in grandi serbatoi cilindrici o sferici e da qui, o con oleodotti o via mare con grandi navi petroliere, viene trasportato ai luoghi di raffinazione (raffinerie).

Il petrolio, una volta estratto dal giacimento, viene immesso in un sistema di tubazioni chiamato oleodotto (pipeline) per poter essere trasportato alle raffinerie o ai porti di imbarco. L’oleodotto è costituito da tubi in acciaio saldati, il cui diametro può giungere fino a 90 centimetri. Essi per lo più vengono interrati e possono coprire anche lunghe distanze. Stazioni di pompaggio spingono il petrolio che scorre all’interno dei tubi. La realizzazione di un oleodotto richiede uno studio approfondito del terreno in cui va collocato, per stabilire il percorso più agevole da far seguire alle tubature, e una continua manutenzione per prevenire guasti o riparare eventuali perdite. Giunto ai porti di imbarco il greggio viene caricato su petroliere o navi cisterna che, in seguito, lo trasporteranno alle raffinerie. Nella seconda metà degli anni ’60 vennero costruite gigantesche navi, che potevano trasportare, in una sola volta, quantità di petrolio anche superiori alle 500.000 tonnellate. La tecnologia che ha permesso simili progressi ha reso però più gravi, sul piano ecologico, le conseguenze di possibili incidenti. Si ricorda, tra gli incidenti più gravi, quello che ha coinvolto la petroliera Exxon Valdez, che la notte del 24 marzo 1989 ha urtato contro uno scoglio sottomarino. Dalla stiva danneggiata uscirono 40 milioni di litri di greggio che, disperdendosi in mare, contaminarono una superficie di circa 3.000 km 2 , lungo le coste dell’Alaska. Da allora sono state migliorate le tecniche necessarie a contenere ed eliminare le chiazze di petrolio riversate in mare a causa di avarie delle petroliere, ma si è ancora ben lontani da una soluzione definitiva del problema. Il ripetersi di incidenti, con gravi conseguenze sul piano ecologico, ne è la triste dimostrazione.

APPROFONDIMENTO: le compagnie petrolifere

La ricerca e l’estrazione del petrolio sono operazioni molto costose, che richiedono impianti e tecnologie avanzate. La prima serie di ricerche si sviluppò negli Stati Uniti, ad opera di grandi compagnie petrolifere che possedevano attrezzature e capitali. Successivamente le compagnie ottennero concessioni da parte di altri Paesi produttori, in cambio di una percentuale sul greggio estratto. Da qui nacque la fortuna delle società petrolifere multinazionali. Le principali furono sette, soprannominate le “sette sorelle”: Exxon, Texano, Mobil, Chevron e Gulf (di origine americana), Shell e BP (di origine europea). Nel 1960, cinque paesi produttori (Venezuela, Iraq, Iran, Kuwait e Arabia Saudita) diedero vita all’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Questa organizzazione, che in seguito si è estesa ad altri Paesi, si proponeva di stabilire un accordo sulla quantità di petrolio da esportare e sul prezzo del barile (il barile è un’unità di volume corrispondente a 159 litri). La crisi energetica del 1973 portò ad un consistente aumento del prezzo del petrolio, che da 4$ al barile salì oltre i 10$, con punte di 44$. Ciò ha reso economicamente possibile lo sfruttamento di nuovi bacini, come quelli, per esempio, del Mare del Nord, da cui in precedenza sarebbe stato troppo costoso estrarre questo idrocarburo. Dagli anni ’70, la quantità di petrolio sul mercato è dunque aumentata e, come per ogni merce, questo ha portato a riassestare il suo prezzo verso il basso. Anche in questo caso gli effetti non hanno tardato a farsi sentire. Due sono state le conseguenze più rilevanti: da una parte la crisi dei Paesi dell’OPEC la cui economia è fondamentalmente basata su questo prodotto, dall’altra la fusione dei tradizionali colossi della produzione. Infatti, per contenere le spese di produzione ed avere ancora un buon margine di guadagno, le grandi compagnie multinazionali si sono fuse tra loro: Exxon con Mobil, BP con Amoco, Shell con Royal Dutch, Total con Fina.

E’ un impianto di grandi dimensioni, diviso in tre blocchi distinti: cisterne per lo stoccaggio del greggio, cisterne per il prodotto finito e torri per le diverse lavorazioni. Queste tre parti sono tra loro collegate mediante tubi che permettono una lavorazione a ciclo continuo. Il petrolio greggio, essendo una miscela di idrocarburi, non è utilizzabile nella sua forma greggia, appena estratto dai giacimenti, ma deve essere sottoposto ad un processo di raffinazione, che consiste nella sua trasformazione in un certo numero di derivati di cui forse il più noto è la benzina. Per ottenere i diversi prodotti derivati dal petrolio, si procede inizialmente alla distillazione frazionata per separarne tagli (o frazioni) da destinare a vari usi: la distillazione è un processo che comporta la vaporizzazione e la condensazione del petrolio greggio. Segue poi la distillazione dei residui e quindi il processo di cracking ed il processo di reforming.

La distillazione del petrolio viene effettuata in speciali colonne chiamate colonne di frazionamento (colonne di topping), alte fino ad 80metri, dopo averlo preriscaldato ed in parte vaporizzato a 350-400°C in speciali forni a serpentina chiamati pipe-still. Nella colonna di topping la temperatura è molto alta alla base e diminuisce via via che ci sia avvicina alla cima e il petrolio, attraversando la colonna dal basso verso l’alto, incontra una serie di ripiani, detti piatti, di acciaio sulla cui superficie avvengono scambi termici che portano le frazioni più volatili a separarsi da quelle meno volatili. Ogni piatto è mantenuto ad una specifica temperatura, che è sempre più bassa man mano che si risale la colonna. Ogni piatto contiene molti fori, muniti di camino e di campanella. I vapori, quando toccano la campanella che corrisponde alla temperatura della propria condensazione, diventano liquidi. In questo modo, inserendo speciali condotti a diverse altezze nella colonna, possono essere grossolanamente raccolte varie frazioni bollenti a differenti intervalli di temperatura, dalle quali con particolari processi di distillazione, si ottengono nuove frazioni sempre più specifiche di idrocarburi. Alle temperature più elevate (quindi nella parte bassa della colonna di topping) si condensano gli idrocarburi più pesanti: il gasolio e il cherosene. Più in alto, a minori temperature di condensazione, si ottengono nafta, benzine leggere e gas. Per poter aumentare la quantità di prodotti di più largo uso, come la benzina, si praticano ulteriori trattamenti sui distillati pesanti. Infatti, utilizzando forti pressioni ed alte temperature, si spezzano le molecole degli idrocarburi pesanti, ottenendo frazioni più leggere. Questo procedimento prende il nome di cracking (to crack= spezzare). Le tre colonne laterali nelle quali avvengono le distillazioni si chiamano colonne di stripping. Queste colonne sono poste in serie e la frazione volatile uscente dall’ultima viene riconvogliata nella colonna di topping. Dalle tre colonne di stripping si isolano, partendo dal basso verso l’alto, rispettivamente: gli oli lubrificanti e gli oli combustibili, con punto di ebollizione, tra i 250°C e o 300 °C; il cherosene e il gasolio, le frazioni medie, con punto di ebollizione tra i 180 e 260 °C; gli olii leggeri, di prima distillazione, con punto di ebollizione tra i 160°C e i 180 °C. Dalla testa della colonna di topping, si ottengono vapori che, opportunamente condensati, danno una ulteriore frazione liquida che bolle a circa 100°C (benzine leggere) ed una frazione gassosa che, opportunamente trattata, dà luogo ai cosiddetti gas di petrolio liquefatti (GPL). In sintesi, queste colonne sono utilizzate per rimuovere componenti volatili residui dalle frazioni ottenute nella distillazione frazionata. Le quantità delle singole frazioni ottenute con la distillazione primaria differiscono in modo sensibile secondo la natura del greggio utilizzato, ma in genere il rapporto quantitativo tra esse non corrisponde alle richieste del mercato: quasi tutti i greggi sono infatti relativamente poveri di prodotti leggeri, più pregiati e richiesti.

Poiché gli idrocarburi ad alto punto di ebollizione hanno valore commerciale relativamente minore delle benzine e dei gas combustibili, è stato messo a punto un processo termo-chimico che permette la scissione (rottura – Cracking) delle lunghe catene degli idrocarburi ad alto peso molecolare (oli medi e pesanti) per ottenere molecole più semplici, dando luogo sia ad oli leggeri sia ad idrocarburi gassosi. In questo modo non solo viene raddoppiata la resa in benzina, che è il prodotto più richiesto tra i derivati dal petrolio, ma si ottengono anche altri sottoprodotti di lavorazione di notevole interesse commerciale. Questo è il processo che si usa maggiormente per ottenere benzine pregiate.

Il reforming è un processo associato al cracking che permette di ottenere benzine ancora più pregiate.

Il petrolio è costituito da una miscela di sostanze (idrocarburi) composte per lo più da idrogeno e carbonio. Secondo la tesi più diffusa, il petrolio si è formato in epoche preistoriche a seguito della trasformazione dei residui di piante e animali che, dopo la morte, si depositarono sul fondo del mare mescolandosi a fango e sabbia e formando successivi strati di sedimento marino. Con il passare dei millenni, il calore e la pressione hanno trasformato tali i residui in un liquido denso e oleoso.

Il petrolio è sempre legato alla presenza di sedimenti marini, ragione per cui la ricerca di giacimenti avviene in zone che in passato erano ricoperte dal mare. In genere, lo si trova raccolto in sacche di roccia impermeabile che possono assumere varie forme l’anticlinale, formato da strati di roccia di forma arcuata, che costituisce la maggior parte dei campi petroliferi del mondo;

la faglia, costituita da una frattura degli strati rocciosi, che porta uno strato impermeabile a imprigionare un altro strato contenente petrolio; la trappola stratigrafica dove, tra strati inclinati di roccia, è racchiuso il petrolio.

Poiché i giacimenti si trovano nel sottosuolo, sono impiegati diversi sistemi di ricerca per individuarli con precisione prima di scavare i pozzi. Ogni sistema di esplorazione può essere utilizzato insieme ad altri, in modo da fornire il maggior numero di informazioni sulla composizione del sottosuolo.

Esplorazione sismica. Si attua mediante l’esplosione di cariche poste nel sotto- suolo. Le onde d’urto colpiscono gli strati di roccia e rimbalzano in superficie, dove sono registrate da sismografi che misurano le vibrazioni del terreno. Il tempo impiegato dalle onde sismiche indica la natura della roccia, la profondità e la possibile presenza del petrolio.

Esplorazione magnetica. È basata sulla diversa quantità di ferro contenuto nelle rocce. Le rocce sedimentarie nelle quali si trova il petrolio contengono meno ferro e pertanto presentano un minor grado di magnetismo. Questo può essere rilevato con strumenti (magnetometri) che, trasportati mediante aero- plani, permettono di esplorare vaste zone.

Esplorazione sottomarina. La ricerca si effettua con metodi simili a quelli usati sulla terraferma. Particolarmente usato è il sistema sismico realizzato da due battelli: uno fa esplodere le cariche, l’altro registra le onde di ritorno con speciali sismografi.

Quando la zona del giacimento petrolifero è individuata, si esegue la trivellazione. Per prima cosa si costruisce una torre in traliccio di acciaio per sostenere le aste a sezione quadrata alla cui estremità si trova lo scalpello che scava nel terreno. Le aste sono fatte ruotare da un motore e, a mano a mano che lo scalpello penetra nel terreno, si aggiungono nuovi elementi, fino a ottenere una lunga sequenza di aste unite tra loro. Per facilitare la fuoriuscita del materiale di scavo, all’interno delle aste si pompa un fango molto fluido che scende fino al fondo dello scavo e risale all’esterno dell’asta trascinando in superficie la terra. L’estrazione del petrolio avviene quando la trivellazione raggiunge il giacimento. Il petrolio, per effetto della pressione a cui è sottoposto, risale lungo il pozzo e affiora con violenza in superficie. Per tale ragione, occorre predisporre un sistema di tubi e valvole di regolazione che permettano al pozzo di fornire il petrolio con un flusso continuo e costante e con pressione non troppo elevata La perforazione dei giacimenti sottomarini avviene sistemando tutte le apparecchiature su piattaforme galleggianti, ancorate cioè al fondo, oppure appoggiate sul fondo per mezzo di strutture metalliche (nel caso in cui le profondità non superino alcune decine di metri)

I carboni fossili.

Il carbone è una particolare roccia sedimentaria di colore bruno o nero, formata da due gruppi di sostanze:

  • materiale organico, cioè carbonio con piccole parti di idrogeno e ossigeno,  che con la combustione fornisce calore (energia termica) e anidride  carbonica;

materiale inorganico cioè argille, sali di zolfo, che con la loro combustione  danno origine alle ceneri e alle sostanze inquinanti.

Come si è formato? Questo combustibile deriva dalla carbonizzazione di intere foreste (carbogenesi), iniziata molti milioni di anni fa ed ha richiesto tre fasi principali:

  • crescita di grandi e fitte foreste in presenza di un clima umido;
  • sprofondamento lento del terreno e copertura degli alberi da parte delle acque e dei fanghi portati dai fiumi; successivamente si trasformano in  roccia che comprime la massa vegetale;
  • carbonizzazione dovuta ai batteri che in milioni di anni hanno divorato  l’idrogeno e l’ossigeno del legno ed alla fine resta il carbonio con piccole  quantità di altri elementi.
Schema carbogenesi.

Ricapitolando. I carboni fossili sono di origine vegetale e derivano da grandi distese di foreste che, centinaia di milioni di anni fa, sono sprofondate e sono state ricoperte dalle acque e, poi, sepolte sotto una spessa coltre di argilla ed altri materiali. La lenta e graduale decomposizione di queste enormi quantità di legname, avvenuta in assenza di aria, in presenza di batteri anaerobi e sotto l’azione di grandi pressioni ed alte temperature, ha generato un processo di trasformazione chiamato carbonizzazione. I tessuti vegetali, che sono costituiti prevalentemente di cellulosa (costituita da idrogeno e ossigeno), durante il processo di carbonizzazione hanno perso gradualmente l’idrogeno e l’ossigeno. Al termine della trasformazione è rimasto solo il carbonio.

I grandi sconvolgimenti geologici che causarono l’inizio di questi grandi fenomeni di trasformazione avvennero in diverse Ere, quindi i carboni fossili che estraiamo hanno età diverse e sono di vario tipo a seconda della durata del processo di trasformazione subito.

Tra tutti i combustibili fossili, il carbone è quello sfruttato da tempo. Già molto prima dell’invenzione della macchina a vapore, la Gran Bretagna ne usava abbondantemente. Nonostante che i suoi giacimenti siano sfruttati da secoli, si stima che le riserve naturali del nostro pianeta possano soddisfare le richieste ancora per duecento anni. Suo è il merito di aver consentito la Rivoluzione Industriale, fornendo l’energia termica necessaria al motore a vapore. Durante quel periodo (tra l’inizio e la fine del XIX secolo), il consumo mondiale del carbone passò da 20 milioni a 700 milioni di tonnellate annue. Il carbone ha però nella sua natura solida un elemento fortemente negativo: innanzitutto non è adatto ai motori a combustione interna, bisognosi di combustibili fluidi d miscelare con l’aria nella camera di scoppio; secondariamente, presenta maggiori difficoltà di trasporto rispetto al petrolio.

Quest’ultimo, infatti, può essere trasportato su grandi distanze semplicemente per mezzo di un tubo (oleodotto), mentre il carbone va materialmente caricato e scaricato su treni, navi, ecc. A queste difficoltà si aggiunge il notevole potere inquinante dei fumi prodotti da questo combustibile. Tutto ciò ha portato in questi ultimi decenni a preferirgli il petrolio, sicuramente più pratico ed efficiente. Attualmente il consumo di carboni è nuovamente in ascesa, sia per l’eccessivo costo del petrolio greggio sia perché le nuove tecnologie garantiscono maggiore sicurezza durante la fase di movimentazione del carbone, cioè di approvvigionamento e trasporto, durante la fase del suo stoccaggio, cioè di deposito e di immagazzinamento, ed infine, permettono la combustione senza troppi residui nocivi e lo smaltimento delle scorie prodotte nella combustione.

La qualità del carbone dipende dal grado di carbonizzazione che ha subito la massa vegetale, cioè dalla sua età. I carboni più antichi sono molto ricchi di carbonio e quindi hanno un maggiore potere calorifico I vari tipi di carbone si distinguono in base al periodo geologico in cui è iniziato il loro processo di carbonizzazione. Dalla vegetazione marcescente si formò per prima la torba, successivamente l’innalzamento del livello del mare ne causò lo sprofondamento sotto masse enormi di sedimenti marini. Man mano che questi cicli si ripetevano, le torbe di più antica formazione sprofondavano e, sempre più compresse, indurivano, procedendo nel loro processo di carbonizzazione. I carboni più antichi risalgono all’Era Mesozoica, circa 350 milioni di anni fa, i più recenti all’Era Quaternaria, meno di 10 milioni di anni fa.

  • Torba: non è un vero carbon fossile, infatti contiene una percentuale di  carbonio pari a circa il 60%, perché deriva da piante erbacee lacustri che  hanno subito una trasformazione limitata. Ha un aspetto spugnoso o  addirittura filamentoso, fibroso ed un colore nerastro. Si trova in  giacimenti superficiali (pochi metri di profondità) e in terreni acquitrinosi  detti torbiere (giacimenti importanti si trovano in Islanda, Olanda,  Germania, ex Unione Sovietica e Finlandia) dove viene estratta con una  draga (macchina da scavo). Contiene molta acqua (fino al 70-90%) e viene pertanto essiccata e compressa in mattonelle. Ha un alto contenuto di ceneri e non è un buon combustibile, viene pertanto impiegata soprattutto in agricoltura come concime e come correttivo dei terreni per arricchirlo di humus, come isolante termo-acustico e, grazie al suo elevato potere assorbente e deodorante, come lettiera per il bestiame.
  • Lignite: ve ne sono molte varietà, con proprietà diverse. Conserva  ancora tracce della struttura fibrosa del legno originario. E’ un carbone  abbastanza giovane detto anche brown coal (carbone marrone) e, a  differenza della torba che proviene dalla carbonizzazione di erbe palustri,  deriva da masse di alberi d’alto fusto di più remota formazione e che  hanno subito trasformazioni più profonde rispetto alla torba. Secondo i giacimenti ed il gradi di carbonizzazione vengono distinti diversi tipi di lignite: lignite torbosa (friabile e stratificata); lignite picea (nera, lucida); lignite xiloide (che porta ancora visibile la struttura del legno). La lignite appena estratta contiene il 40% di umidità, che dopo l’essiccamento, si riduce al 15-20%. Può essere utilizzata direttamente o in forma di mattonelle ottenute per semplice compressione. Questo carbone, che contiene una percentuale di carbonio pari a circa il 75%, non è un buon combustibile e poiché non conviene affrontare le spese di trasporto, viene utilizzato sul posto per alimentare centrali termoelettriche o come materia prima per alcune industrie chimiche. Giacimenti importanti si trovano in ex Unione Sovietica, Germania, Inghilterra e Romania. In Italia se ne trovano piccole quantità in Toscana, Umbria, Sardegna e Calabria.
  • Litantrace: è il carbon fossile che trova maggiore utilizzazione  nell’industria. E’ di colore scuro opaco o poco lucente, di  formazione più antica della lignite e più recente dell’antracite. La sua  formazione risale al periodo carbonifero, cioè a circa 300 milioni di anni fa.  Contiene una percentuale di carbonio pari a circa il 93% e una percentuale  di zolfo molto bassa e talvolta nulla. Per la sua composizione, che permette gli usi più svariati, e per la vastità dei giacimenti, è il più importante dei carboni fossili. Dal litantrace riscaldato ad elevate temperature (1000°C) in assenza di aria, si ricava il coke metallurgico. Quest’ultimo viene utilizzato negli altiforni per la produzione di acciaio.
  • Antracite: è il più antico dei carboni fossili e rappresenta il prodotto di un  avanzatissimo stadio di carbonizzazione dei vegetali. Ha un aspetto  metallico, nero, lucente e compatto e brucia lentamente non lasciando alcun residuo durante la combustione.  Contiene una altissima percentuale di carbonio (circa il 95%) e  conseguentemente bassi tenori di ceneri e di sostanze volatili. Per il suo  notevole potere calorifico è uno tra i migliori combustibili . Ideale per il riscaldamento, non trova grandi applicazioni industriali perché si preferisce il meno costoso litantrace. Si trova in terreni geologicamente molto antichi (Era primaria) ed è abbondante in varie località della Francia, della Svizzera, della ex Unione Sovietica e negli USA. In Italia piccoli giacimenti si trovano in Val d’Aosta, in Piemonte (provincia di Cuneo) e nelle Alpi Liguri, in Sardegna.

A partire dal XVI secolo, in particolare in Inghilterra, per risolvere il problema dell’approvvigionamento energetico degli impianti siderurgici, si comincia a sostituire il carbone di legna con quello fossile. Le prime miniere di carbone erano pozzi verticali, profondi circa 10 metri. Il carbone veniva tagliato e portato in superficie all’interno di cesti. Man mano che i pozzi diventavano più profondi e si scavavano gallerie laterali sempre più lunghe, aumentava la possibilità di frane, allagamenti, esplosioni causate dalla presenza di gas metano. Oggi i giacimenti di carbone sono ampiamente diffusi in tutto il mondo e Cina, ex URSS e USA sono i maggiori produttori a livello mondiale. Il ciclo del carbone comprende la coltivazione mineraria, il trasporto e la distribuzione, la combustione diretta o la conversione in prodotti vari, liquidi e gassosi. I giacimenti si trovano più comunemente in profondità, ma possono anche affiorare al livello del suolo. Il loro sfruttamento si può effettuare in due diversi modi:

  • coltivazione a cielo aperto dove l’estrazione viene effettuata in aree in cui il giacimento di carbone è molto vasto, si trova vicino alla superficie ed il carbone è facilmente rimovibile. La crosta rocciosa viene sbancata e con attrezzature speciali si rompe il carbone separandone grandi quantità in maniera rapida ed economica. Questo sistema è dannoso dal punto di vista ambientale in quanto si crea un grosso scavo nel terreno e si solleva molta polvere nera che viene sparsa dai venti per decine di chilometri. Esaurita la miniera, la società mineraria deve provvedere a sistemare lo scavo, ristabilendo le condizioni iniziali.
  • Coltivazione sotterranea: in questo caso vengono utilizzati diversi tipi di accesso alle vie sotterranee, i pozzi verticali (che permettono l’accesso alle gallerie e che sono attrezzati con impianti di sollevamento) e gallerie inclinate o gallerie orizzontali (a diverse profondità e quindi disposte a livelli diversi, seguendo i filoni carboniferi) in quanto la profondità delle miniere può superare i 1.000 metri. In questo caso, l’unico cambiamento nel paesaggio sono le montagne di rocce sterili che si formano in prossimità dei pozzi, invece sono alti i rischi per i minatori e per ridurre tali rischi si adottano numerose norme di sicurezza: le gallerie potrebbero franare e quindi vanno puntellate con centinature metalliche; l’acqua delle falde potrebbe allagare le gallerie e quindi viene sollevata in superficie con pompe; l’aria può circolare per tiraggio naturale, ma se le gallerie sono molto profonde si devono usare sistemi di aria forzata; il gas metano o grisou è spesso presente in sacche e potrebbe invadere le gallerie quando si abbatte una parete; per evitare le esplosioni si usano macchine ad aria compressa che non producono scintille. La salute del minatore è comunque esposta ad alti pericoli: le polveri respirate possono provocare la silicosi; il rumore delle perforatrici causa disturbi all’udito; l’aria sottoterra è calda e presenta molta umidità.

Combustibili fossili

I combustibili fossili derivano da una lenta e graduale decomposizione di sostanza organica. Si possono trovare sotto forma di petrolio (liquido), carbone (solido), gas naturale (gassoso) e altri combustibili composti da idrocarburi (composti che contengono carbonio -C- e idrogeno -H-).

Petrolio e gas naturali si presume che siano derivati da un lento processo di trasformazione di grandi quantità di plancton (fitoplancton e zooplancton) che si sono depositate sul fondo di oceani e laghi milioni di anni fa. Nel corso di decine di migliaia di secoli, questa materia organica si è mescolata con il fango ed è stata “sepolta” sotto pesanti strati di sedimenti. Il calore e la pressione provenienti dal centro della Terra hanno causato alterazioni nella loro composizione chimica formando composti di carbonio.

Nel caso dei carboni fossili, invece, la fonte originaria è individuabile in piante morte ricoperte dal sedimento durante il periodo Carbonifero (circa tra i 300 e i 350 milioni di anni fa). Con il passare dei secoli, questi depositi si sono solidificati, dando vita a distese di carbone. In alcuni casi possono anche in gas.

In sintesi

Possiamo dire che la decomposizione è avvenuta in mancanza di aria, sotto l’azione di alte temperature e pressioni e in presenza di speciali batteri. Come sappiamo, i tessuti vegetali sono costituiti in massima parte di cellulosa (risultato di un processo antico di fotosintesi), sostanza formata di carbonio, idrogeno e ossigeno. Durante la decomposizione questi tessuti hanno perso quasi tutto l’ossigeno e l’idrogeno e si sono trasformati in sostanze ricchissime di carbonio.

Utilizzi moderni

Per comprendere cosa sono i combustibili fossili e come mai siano diventati un tema molto attuale, bisogna certamente fare riferimento ai loro impieghi nell’era moderna.

Il carbone è stato utilizzato sin dall’antichità come combustibile, soprattutto nelle fornaci per fondere i minerali metallici.

L’olio non trattato e non raffinato è stato per esempio bruciato per secoli nelle lampade per favorire l’illuminazione.

Gli idrocarburi semi-solidi (come il catrame) sono stati utilizzati per l’impermeabilizzazione (in gran parte sul fondo di imbarcazioni e sulle banchine) e per l’imbalsamazione.

L’impiego su larga scala dei combustibili fossili ha avuto inizio durante la Prima Rivoluzione Industriale, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, in cui carbone (prima) ed il petrolio (dopo) hanno cominciato ad essere sfruttati come carburanti per alimentare i motori a vapore. Nel corso della Seconda Rivoluzione Industriale (a cavallo tra Ottocento e Novecento), invece, i combustibili fossili venivano usati per fornire energia ai generatori elettrici.

L’invenzione del motore a combustione interna (per esempio, quello delle automobili) ha aumentato le richieste di petrolio in modo esponenziale, così come lo sviluppo degli aeromobili. Di conseguenza, si assiste prontamente all’emergere dell’industria petrolchimica, con il petrolio utilizzato per produrre componenti che spaziano dalla plastica alla materia prima. Nel secolo scorso i derivati del petrolio hanno permesso di inventare uno dei materiali che oggi l’uomo utilizza quotidianamente ovvero le plastiche. Inoltre, il catrame (un residuo dall’estrazione del petrolio) è diventato ampiamente utilizzato nella costruzione di strade e autostrade.

Effetti ambientali

La connessione tra i combustibili fossili e l’inquinamento atmosferico presente nelle nazioni industrializzate e nelle grandi città è stata evidente sin dalla Rivoluzione Industriale. Tra gli inquinanti generati dalla combustione di carbone e petrolio si possono includere anidride carbonica, monossido di carbonio, ossidi di azoto, biossido di zolfo, composti organici volatili e metalli pesanti, tutti associati a maggiori rischi di contrarre malattie, soprattutto respiratorie.
Lo sfruttamento dei combustibili fossili da parte degli esseri umani è anche la più grande fonte di emissioni di biossido di carbonio, o CO2, (circa il 90%) in tutto il mondo. La CO2 è uno dei principali gas che causano l’effetto serra e, quindi, contribuisce al surriscaldamento globale.

C’è bisogno di alternative

Capire cosa sono i combustibili fossili implica anche essere consapevoli della loro pericolosità per il nostro ecosistema. Diventa quindi di fondamentale importanza attrezzarsi e individuare delle fonti energetiche alternative e pulite, che possano essere salutari e sicure per la salvaguardia della Terra. Sfruttare le potenzialità di altri elementi naturali come l’acqua, l’aria e il sole per produrre energia è sicuramente una delle strade al momento più percorribili. Grazie al progresso scientifico si sono potute sviluppare tecnologie in grado di trarre vantaggi dalle cosiddette fonti energetiche rinnovabili

Definizioni
PLancton

Organismi di varie dimensioni presenti nell’acqua che si fanno trasportare dalla corrente. Si differenzia il fitoplancton se sono organismi di natura vegetale e zooplancton se di natura animale

Fitoplancton

Sono organismi presenti nel plancton che hanno la capacità di effettuare la fotosinstesi.

SEDIMENTO

Rappresenta un accumulo di sostanze che prima erano in sospensione (generalmente nei liquidi) e successivamente si vanno a depositare (sedimentazione) formando una massa di quelle sostanze.

I combustibili

Sotto il nome di combustibili comprendiamo tutte quelle sostanze (solide, liquide, gassose) che si combinano con l’ossigeno, in una reazione chimica (detta combustione), nel corso della quale l’energia racchiusa nei legami chimici si trasforma in calore (energia termica), che viene liberato.

La mappa può essere visualizzata anche qui      

Combustibili fossili Sono quelle sostanze estratte dal sottosuolo – che possono trovarsi anche a grandissime profondità – e che hanno subito un processo di fossilizzazione le quali, a contatto con l’ossigeno dell’aria, sono in grado di bruciare, sviluppando calore e luce.

I combustibili possono essere naturali o artificiali (sintetici o derivati da quelli naturali a seguito di processi di lavorazione).

La combustione è una reazione che permette al carbonio e all’idrogeno contenuto nei combustibili di combinarsi con l’ossigeno (comburente) per produrre CO2 e H2O e soprattutto calore (energia termica), che è il prodotto economicamente principale di queste reazioni. Come vedremo nelle prossime lezioni, il calore rilasciato dalla combustione viene direttamente utilizzato in apposite centrali per produrre energia elettrica.

La caratteristica comune dei combustibili è quella di contenere i due elementi combustibili fondamentali:

  • idrogeno ( H );
  • carbonio ( C )

Quanto più alta è la quantità di calore sviluppata dal combustibile durante la combustione, tanto più alto è il suo valore economico, naturalmente a parità di peso. La quantità di calore sprigionata durante la combustione può essere misurata sperimentalmente e prende il nome di potere calorifico: i combustibili sono tanto migliori quanto maggiore è la percentuale di carbonio in essi contenuta e quanto maggiore è il loro potere calorifico.

Il potere calorifico

La quantità di calore che si sviluppa bruciando 1 kg o m3 di un combustibile viene chiamata potere calorifico di quel combustibile. Il potere calorifico si misura in kilocalorie per chilogrammo (kcal/kg) se il combustibile è solido, e in kilocalorie per metro-cubo (kcal/m3) se il combustibile è gassoso o liquido. Naturalmente maggiore è la quantità di calore che si sviluppa durante la combustione di una massa di combustibile, maggiore è il valore economico del combustibile stesso.

Potere calorifico dei principali combustibili MEDIO
CombustibilePotere calorificoCombustibilePotere calorifico
Legno3.500 kcal/kgCoke metallurgico7.100 kcal/kg
Torba3.000 kcal/kgBenzina10.500 kcal/kg
Lignite5.500 kcal/kgGasolio10.700 kcal/kg
Litantrace7.000 kcal/kgNafta10.500 kcal/kg
Antracite8.500 kcal/kgGas liquido11.000 kcal/kg
Carbone di legna7.000 kcal/kgPetrolio greggio11.000 kcal/m3
Gas d’acqua2.200 kcal/m3Gas d’aria950 kcal/m3
Gas misto1.200 kcal/m3Metano8.700 kcal/m3