Il ciclo di vita dei materiali

Il ciclo di vita dei materiali è l’insieme di tutte le fasi produttive in cui un materiale è utilizzato. Il ciclo può essere chiuso o aperto; questo varia a seconda che si presenti o meno la possibilità di utilizzare più volte lo stesso materiale in diversi cicli produttivi. Le fasi e la durata del ciclo produttivo variano a seconda del materiale. È comunque possibile identificare le fasi principali che caratterizzano il ciclo di vita di tutti i materiali:

  • lo stadio di materia prima;
  • di semi-lavorato;
  • di prodotto finito;
  • di rifiuto.

A queste fasi si può aggiungere quella che prevede l’estrazione della materia prima dalla risorsa naturale. Ad esempio, il legno è la materia prima che si ricava dall’albero che rappresenta la risorsa naturale.

Dalla materia prima al prodotto semilavorato

Le materie prime presenti in natura devono essere trasformate in materiali semilavorati. Soltanto in pochi casi le materie prime possono essere utilizzate direttamente nel loro stato grezzo. I prodotti semilavorati sono destinati a soddisfare le esigenze produttive di altri processi produttivi, in altre imprese o all’interno della stessa impresa. Quando sono destinati a soddisfare le esigenze produttive di altre imprese, i materiali semilavorati diventano un oggetto di scambio sul mercato. Ad esempio, un’azienda produce acciaio e lo vende sul mercato. L’acciaio è un materiale semi-lavorato.

Dal prodotto semilavorato al prodotto finito

I materiali semilavorati sono, infine, utilizzati per la fabbricazione dei prodotti finiti. Ogni prodotto è destinato a soddisfare dei bisogni umani. Un bene economico è detto prodotto finito quando soddisfa le esigenze delle persone e non è utilizzato per produrre altri beni. Ad esempio, un’azienda acquista l’acciaio e la plastica ( materie prime e materiali semilavorati ) e li utilizza per produrre delle lamette ( prodotto finito ) che vende al consumatore finale. Da un semilavorato possiamo anche ottenere dei componenti ossia delle parti che andranno assemblate per diventare un prodotto finito. Ad esempio, i componenti di un PC sono diversi, questi dovranno essere assemblati (uniti) per diventare un computer.

Al termine del ciclo di vita i prodotti finiti si trasformano in rifiuti e sono avviati allo smaltimento nelle discariche o negli inceneritori. Ad esempio, la lametta viene acquistata e utilizzata dal consumatore finale. Una volta utilizzata, la lametta viene gettata nella spazzatura. Alcuni prodotti sono usa e getta, altri prodotti possono essere utilizzati più volte. Nel lungo termine, tutti i prodotti sono destinati a trasformarsi in rifiuti. Dal punto di vista sociale la gestione dei rifiuti è l’ultimo stadio del ciclo di vita di un materiale.

Il riciclaggio

Una parte dei materiali presenti nei rifiuti può essere recuperata tramite le attività di riciclaggio. I materiali riciclati ( es. vetro, metalli, ecc. ) sono nuovamente immessi in un nuovo ciclo produttivo per la produzione di nuovi prodotti finiti. L’uso dei materiali riciclati consente di estendere nel tempo il ciclo di vita di un materiale.

Risorse, riserve e fonti.

Tutto ciò che produce energia è una “fonte di energia”. Il Sole è la principale fonte di energia della Terra. La Terra riceve dal Sole un flusso ininterrotto di energia che, oltre ad alimentare tutti i processi vitali, vegetali e animali, scioglie i ghiacci ed alimenta il ciclo dell’acqua tra mare e atmosfera, produce i venti, fa crescere le piante che nel corso di milioni di anni si sono trasformate, insieme ai resti di organismi animali, in combustibili fossili, petrolio, carbone e gas naturale.

La risorsa energetica è tutto ciò che può essere utilizzato per generare energia utile per le attività umane

Per tutte le fonti energetiche, esiste una distinzione tra:

  • le risorse sono l’insieme delle fonti conosciute, delle fonti non ancora scoperte e delle risorse non convenientemente sfruttabili con le tecnologie a disposizione dell’uomo..
  • le riserve sono i materiali di cui conosciamo l’esatta localizzazione ( giacimenti )ed economicamente sfruttabili dall’uomo con le attuali tecnologie.

Quindi le riserve energetiche sono un sottoinsieme delle risorse energetiche. Ad esempio, il petrolio è una risorsa energetica. I giacimenti di petrolio conosciuti e sfruttabili sono, invece, una riserva energetica. Sono esclusi dalle riserve energetiche i giacimenti di petrolio non ancora scoperti e quelli non convenientemente sfruttabili con le attuali conoscenze tecnologiche.

Fonti primarie e secondarie.

Le numerose fonti energetiche esistenti possono essere classificate in diversi modi.

Si definiscono fonti di energia primaria tutte quelle sorgenti energetiche che sono presenti in natura in una forma direttamente utilizzabile dall’uomo, senza la necessità di essere sottoposte a trasformazioni industriali o altri tipi di processamento intermedio. Un esempio di energia primaria è la luce del sole: le sue radiazioni scaldano la Terra e forniscono energia a piante organismi autotrofi funzionando come un vero e proprio carburante per la realizzazione della fotosintesi clorofilliana. Altre fonti primarie che tutti conosciamo sono l’energia termica proveniente dagli strati profondi della crosta terrestre, il vento, le maree, la legna, i combustibili nucleari e il gas naturale.

A differenza delle fonti primarie, le sorgenti di energia secondaria hanno la caratteristica di non essere fruibili dall’uomo direttamente nel loro stato naturale, ma necessitano di trasformazioni industriali per essere utilizzate come fonte diretta di energia. Molte fonti secondarie derivano da fonti energetiche primarie che vengono trasformate mediante l’azione dell’uomo. La benzina, ad esempio, è uno dei combustibili più utilizzati nella nostra società moderna poiché da essa dipendono la maggior parte dei trasporti su strada, via mare e via aerea. Essa viene classificata come una fonte energetica secondaria, poiché è prodotta a partire dal petrolio grezzo, una risorsa mineraria naturale che viene estratta dagli strati più o meno profondi della crosta terrestre.

In molti casi, l’energia elettrica prodotta a partire da fonti naturali rientra anch’essa tra le forme energetiche secondarie: l’energia elettrica estratta dal vento o dalle maree, ad esempio, richiede trasformazioni complesse che si attuano in strutture dedicate chiamate centrali elettriche.

Le fonti di energia non rinnovabili.

Le energie non rinnovabili sono quelle risorse energetiche che troviamo all’interno del nostro pianeta in una quantità limitata, destinata a finire nel corso dei secoli (o su scale temporali superiori) se il loro utilizzo si protrae al ritmo attuale.

I tempi di rinnovamento delle fonti non rinnovabili, infatti, si sviluppano su archi temporali troppo estesi per stare al passo con le necessità energetiche delle nostre città o del nostro ritmo di vita: prima o poi, queste fonti energetiche sono dunque destinate ad esaurirsi e la nostra società non potrà più far affidamento su di esse per alimentare i propri bisogni. Le più comuni risorse energetiche non rinnovabili sono:

  • combustibili fossili: tutti quei combustibili che si sono formati, nel corso delle diverse ere geologiche, per trasformazione di materia organica in forme altamente stabili e ricche in atomi di carbonio. Il carbonio è ciò che brucia per produrre attivamente energia: più ce n’è, più il combustibile sarà efficiente. Tra i combustibili fossili più utilizzati al giorno d’oggi troviamo il petrolio e gli altri idrocarburi naturali, il carbone e il gas naturale.
  • l’energia nucleare: l’uranio e gli altri combustibili nucleari sono presenti in natura all’interno di rocce, nel suolo, nelle falde acquifere e persino in alcuni organismi viventi. Come per le risorse energetiche fossili, anche questi sono presenti in quantità limitate e l’origine di tutti i depositi attualmente conosciuti risale addirittura alla nascita del pianeta Terra.
Fonti rinnovabili.

Si definiscono fonti di energie rinnovabili tutte quelle risorse che vengono prodotte mediante trasformazioni chimiche o processi fisici che avvengono continuamente sul nostro pianeta, o che avvengono comunque in scale temporali compatibili con l’utilizzo delle risorse in questione. Tra le fonti rinnovabili troviamo:

  • l’energia solare: è l’energia sprigionata dalle radiazioni solari che colpiscono il nostro pianeta. È prodotta continuamente ed è considerata la fonte primaria di energia sulla Terra.
  • l’energia eolica: è l’energia cinetica associata al movimento delle masse ventose nella nostra atmosfera.
  • l’energia geotermica: si genera per mezzo di fonti di calore geologiche situate sotto la superficie della crosta terrestre.
  • l’energia marina: è l’energia meccanica racchiusa nelle masse d’acqua che compongono i mari e gli oceani del nostro pianeta.
  • l’energia idroelettrica: sfrutta l’energia potenziale gravitazionale e l’energia cinetica di una massa d’acqua in movimento che viene convogliata all’interno di specifiche centrali elettriche.
  • l’energia da biomasse: sfrutta l’energia contenuta negli atomi di carbonio provenienti da organismi animali e vegetali. Si produce mediante trasformazioni biochimiche su breve scala temporale e può essere considerata come un’alternativa rinnovabile alle risorse energetiche fossili.

NOTA BENE.

Riserva energetica. Il concetto di risorsa energetica non deve essere confuso con quello di riserva energetica. La riserva energetica è un sottoinsieme della risorsa energetica poiché include soltanto le quantità della risorsa contenute nei giacimenti scoperti ed economicamente/tecnologicamente sfruttabili dall’uomo.

Tecnica e Tecnologia.

Sono evidenti le enormi differenze che esistono tra le condizioni di vita degli uomini primitivi e quelle attuali. Ma come si è passati da un modo di vivere così disagiato e pericoloso, quale sicuramente era quello dei nostri antenati, alle tante comodità dei nostri giorni? Solo e semplicemente attraverso una lunghissima serie di scoperte ed invenzioni. Le tecniche sono i procedimenti mediante cui tali invenzioni e scoperte sono state fatte.

Il motivo per cui durante la scuola media studierai Tecnologia è quello di apprendere il metodo con cui tutte tali invenzioni e scoperte sono state fatte poiché la consapevolezza di tale metodo e e soprattutto la capacità di utilizzarlo è estremamente utile in moltissime situazioni di lavoro, di studio, di attività domestiche, cioè nella vita di tutti giorni.

Ma qual è questo metodo?

Per capire come si arriva a inventare qualcosa, prendiamo come esempio l’aeroplano, creato da Leonardo da Vinci che iniziò osservando attentamente il volo degli uccelli. Anche oggi possiamo vedere gli appunti e i disegni che fece durante questa fase di studio, conservati in diversi musei. L’osservazione è la prima fase di qualsiasi invenzione o scoperta e spesso riguarda la natura e ciò che ci circonda.

La seconda fase ossia quella dell’ideazione è decisamente più complessa

Nel esempio che abbiamo utilizzato, Leonardo ha avuto l’idea di creare una macchina che potesse permettere all’uomo di volare imitando il volo degli uccelli. Successivamente, ha fatto alcuni disegni che descrivono come la macchina sarebbe stata fatta, con l’indicazione dei materiali, dei pezzi e di come le varie parti sarebbero state collegate. Questa fase di progettazione costituisce la terza fase di ogni conquista. Infine, affinché l’invenzione o la scoperta possa essere utilizzata, è necessario che degli operai e dei tecnici seguano le istruzioni del progetto e costruiscano la macchina, nel nostro caso l’aeroplano. Questa fase finale è la realizzazione.

Se consideriamo che Leonardo da Vinci visse tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500, e che il primo aereo che volò fu quello dei fratelli Wright nel 1903, si può notare che ci sono voluti circa 400 anni per passare dalla fase del progetto a quella della realizzazione. Per capire perché ci fu un ritardo così lungo, è necessario esaminare la struttura dell’aereo ideato da Leonardo. La struttura era in legno e ricoperta di tela, materiali che erano già noti e utilizzati al tempo. Tuttavia, per volare, un aereo ha bisogno di un’elica e di un motore per farla girare. Anche se l’uso dei metalli risale a epoche antiche come l’età del rame e l’età del ferro, perché non fu possibile costruire un motore all’epoca di Leonardo da Vinci?

Per diversi motivi. Il più semplice motivo è che allora tutti gli oggetti venivano costruiti a mano, come i metalli lavorati dal fabbro sull’incudine, e pertanto non potevano avere quella precisione e quella uniformità di dimensioni che richiede la realizzazione di una macchina complessa quale è un motore. Quando invece, alla fine del 1700, con la Rivoluzione Industriale si cominciarono a costruire gli oggetti con l’uso delle macchine fu possibile raggiungere la precisione richiesta e realizzare i motori che vennero utilizzati prima per le machine stesse, poi per mezzi di trasporto terrestri (locomotive) e navali ed infine anche per far volare gli aeroplani. Ma all’epoca di Leonardo non si conosceva neanche come alimentare questo motore. Come poteva girare l’elica? Con la sola energia data dalla forza dell’uomo? Sarebbe stato impossibile.

Tutta questa lunga spiegazione si può comunque riassumere affermando che ai tempi di Leonardo da Vinci la tecnologia dei metalli non era in grado di costruire un motore. La tecnologia è infatti la «scienza che studia la trasformazione delle materie prime in oggetti finiti». Precisando che si definisce risorsa naturale qualunque materiale che si trova spontaneamente in natura e che un oggetto finito è un oggetto pronto per essere usato.

Un esempio per capire cos’è la Tecnologia? Eccolo.

Immaginiamo di voler costruire una sedia di legno. La risorsa naturale è l’albero, la materia prima è ovviamente il legno e l’oggetto finito è la sedia su cui possiamo sederci. Per passare però dal legno che si trova ancora nell’albero alla sedia sono necessarie tutta una serie di operazioni, quali ricavare legno dall’albero, tagliarlo, piallarlo, incollarlo, assemblarlo. Di questo si occupa la tecnologia del legno.

Se invece la sedia deve essere di metallo la materia prima è, ad esempio, i ferro e le operazioni da compiere per arrivare all’oggetto finito sono completamente diverse poiché si tratterà di estrarre il metallo dai suoi minerali, fonderlo, saldarlo, ecc. Di tali operazioni si occupa la tecnologia dei metalli.

Tecnologia! What’s this?

Tecnologia

Che cos’è questa materia di cui non ti sei mai occupato? Quali argomenti tratta? Che cosa ti insegnerà di nuovo?

Per te alunno di prima media, la Tencologia è una disciplina del tutto nuova, incontrata nella scuola elementare solo in modo sporadico attraverso le scienze, la geometria, il disegno.

Per conoscere gli argomenti generali che la Tecnologia affronta, occorre definire alcuni termini .

Con il termine tecnica si intende l’insieme dei metodi e dei mezzi che vengono impiegati nei vari processi produttivi per ottenere determinati risultati che, in pratica, sono i prodotti della tecnica.

Questa “nuova” materia ha la finalità di educarti a cogliere l’aspetto tecnico, tecnologico e produttivo di tutte le “cose” che l’uomo fabbrica per soddisfare i suoi innumerevoli e sempre crescenti “bisogni”.

La scienza e la tecnica sono nate come risposta ai bisogni dell’uomo: bisogno di conoscenza (perché e come avvengono i fenomeni intorno a noi) e bisogni di sopravvivenza (affrontare le sfide poste dall’ambinete e migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, procurarsi il cibo, ripararsi dal freddo, trovare un luogo di rifugio, ecc.).

I bisogni hanno posto via via una serie di problemi che sono diventati parte della vita stessa dell’uomo.

Per trovare una soluzione a questi problemi, l’uomo ha progressivamente sviluppato tutti quegli aspetti che caratterizzano ancor oggi l’attività di ricerca scientifica e di elaborazione tecnica, o come diciamo oggi, tecnologica:

  • le capacità cognitive, cioè mentali, dell’essere umano;
  • la capacità di osservare la natura nella sua inesauribile varietà;
  • la possibilità di accumulare conoscenze e soprattutto di trasmetterle ai propri simili come patrimonio culturale acquisito;
  • le abilità di manipolare i materiali disponibili in natura per costruire strumenti e oggetti.

Visualizziamo i concetti utilizzando la mappa che segue:

La difficoltà superata o il bisogno soddisfatto quasi sempre sono diventate il punto di partenza per tentare di superare un altro ostacolo e per far nascere nuovi bisogni. Tanto più la vita si fa complessa, tanto più aumentano i bisogni e più grande è la spinta a  ricercare, ad inventare, a scoprire,… in un  susseguirsi continuo.

La tecnologia ha avuto un impatto significativo sulla società e sull’economia mondiale, influenzando praticamente tutti gli aspetti della vita umana. Ha reso possibile la comunicazione globale, la trasformazione dei processi produttivi, l’automazione dei lavori, la creazione di nuovi mercati e l’accelerazione della ricerca scientifica e tecnologica. Tuttavia, la tecnologia può anche avere effetti negativi, come la dipendenza dalle tecnologie digitali, l’inquinamento ambientale e la disoccupazione derivante dall’automazione dei lavori.

Il nucleare: un po’ di storia.

Non è semplice trovare una scoperta scientifica che abbia avuto un impatto più grande sulla popolazione e sulla politica mondiale di quello dell’energia nucleare. L’umanità ha preso coscienza di questa nuova forma di energia il 6 agosto 1945 quando si diffuse nel mondo la drammatica notizia dell’esplosione di una bomba nucleare sulla città giapponese di Hiroshima (80.000 morti immediati).

La storia del nucleare ha inizio 1916 con il fisico tedesco Albert Einstein attraverso la teoria della relatività ristretta, principio di equivalenza massa-energia, espressa nell’equazione:

                                                                    E = mc²

in cui :

E è l’energia, espressa in joule; m è la massa, espressa in chilogrammi; c² è la velocità della luce al quadrato, espressa in m/s;

la quale rappresenterebbe il fondamento teorico dell’energia nucleare. Questa formula suggerisce in linea di principio, la possibilità di trasformare direttamente la materia in energia o viceversa. Einstein non vide applicazioni pratiche in questa scoperta. Intuì però che il principio di equivalenza massa-energia poteva spiegare il fenomeno della radioattività, ovvero che certi elementi emettono energia spontanea, e una qualche reazione che implicasse l’equivalenza poteva essere la fonte di luminosità che accende le stelle. L’idea che una reazione nucleare si potesse anche produrre artificialmente, cioè sotto forma di reazione a catena, fu sviluppata in seguito alla scoperta del neutrone che avvenne 1932 quando il fisico Chadwick ottenne la conferma sperimentale della sua esistenza (scopriremo che i neutroni sono di fondamentale importanza per indurre il processo di fissione con successiva liberazione di energia).

Nel 1934 il gruppo di fisici italiani (i ragazzi di via Panisperna) diretti da Enrico Fermi bombardano sperimentalmente alcuni atomi con i neutroni e, quasi inconsapevolmente, realizzano la prima rudimentale fissione nucleare.

Nel 1938, si capì che, bombardando con neutroni il nucleo di certi tipi di atomi, come l’uranio, si poteva indurne lo divisione (in termine tecnico: la «fissione»), con la produzione di energia. Si apriva in tal modo la possibilità di sfruttare a nostro piacimento le gigantesche quantità di energie presenti nei nuclei. Si ebbe un’idea che si dimostrò fatale: si sarebbe potuto sfruttare l’atomo per nuove e dirompenti applicazioni nel settore militare, grazie alla cosiddetta reazione a catena. Prendeva piede la possibilità di una “superbomba” dalla potenza sino ad
allora inimmaginabile, davvero fantascientifica per quei tempi. Con questa prospettiva, essendo ormai alla vigilia della seconda guerra mondiale, fu inevitabile che gli studi sul nucleare, fino a quel momento compiuti in competitiva collaborazione tra gruppi delle diverse nazioni, venissero secretati; non si poteva certo permettere che stati nemici potessero avvantaggiarsi, imparando a gestire reazioni che generavano cento milioni di volte più energia rispetto alla classica reazione chimica impiegata nell’esplosivo tradizionale di dinamite o tritolo.
In questa corsa alla bomba, come è noto, il successo arrise agli Stati Uniti. Il loro programma nucleare militare, battezzato Progetto Manhattan, iniziò nel 1942 (spinto anche da una lettera scritta da Einstein al Presidente Roosevelt) e godette di risorse mai viste in precedenza in nessun settore tecnico-scientifico. Sotto la direzione del fisico Robert Oppenheimer e con il fondamentale contributo di Fermi, i più brillanti esperti mondiali di fisica si impegnarono nella più audace e difficile applicazione concreta degli studi scientifici. Il risultato del loro lavoro si ebbe già nell’estate del 1945, quando le esplosioni atomiche, prima nel deserto di Alamogordo nel New Mexico e, poco dopo, sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, cambiarono per sempre il modo di immaginare la guerra, che divenne improvvisamente capace di uccidere in un istante milioni di persone.

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La potenza del nuovo ordigno lo rendeva però inadatto a discriminare tra personale militare e popolazione, rendendo così il conflitto ancor più sanguinario e con effetti sempre più gravi per i civili, che per le leggi internazionali dovrebbero essere protetti.

La prima bomba al plutonio (nome in codice “The Gadget”) fu fatta esplodere nel “Trinity test” il 16 luglio 1945 nel poligono di Alamogordo, in Nuovo Messico. La prima bomba all’uranio (“Little Boy”) fu sganciata sul centro della città di Hiroshima il 6 agosto 1945. La seconda bomba al plutonio, denominata in codice “Fat Man“, fu sganciata invece su Nagasaki il 9 agosto 1945. Questi sono stati gli unici casi d’impiego bellico di armi nucleari, nella forma del bombardamento strategico.

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L’Unione Sovietica recuperò abbastanza rapidamente il ritardo e sperimentò la prima bomba a fissione il 29 settembre 1949, ponendo così fine al monopolio degli Stati Uniti d’America. La Gran Bretagna, la Francia e la Repubblica Popolare Cinese sperimentarono un ordigno a fissione rispettivamente nel 1952, nel 1960 e nel 1964. Le testate nucleari, basate sia sul principio della fissione nucleare che della fusione termonucleare possono essere installate, oltre che su bombe aeree, su missili, proiettili d’artiglieria, mine o siluri.

Nel 1954 il presidente degli Usa, Eisenhower, inaugurò il progetto “Atom for Peace”, allo scopo di favorire l’applicazione civile dell’energia nucleare. In soli 12 mesi venne realizzata la prima centrale nucleare della storia, il reattore civile Borax III in grado di fornire energia elettrica a una piccola città dello Stato dell’Idaho (Usa).

Dopo che Enrico Fermi aveva trovato il modo di «addomesticare» la reazione a catena, facendola procedere in modo controllato, si realizzarono le prime centrali nucleari, il cui scopo iniziale fu esclusivamente militare: creare artificialmente un materiale non presente sul pianeta Terra, il plutonio, che ci si aspettava avesse caratteristiche ottimali per produrre bombe atomiche. Solo vari anni dopo la guerra, nei primi anni ’50, ci si impegnò per la realizzazione di centrali civili, capaci di produrre calore e soprattutto elettricità. Nacquero a quel punto tanti sogni (che oggi possiamo definire ingenui), che promettevano di fornire energia illimitata e a costi irrisori ad un’umanità attonita di fronte all’enorme potenza dell’atomo. Ma si posero anche le radici per alcuni
incubi che ancora ci accompagnano al giorno d’oggi.

Definizioni
neutrone

Il neutrone è una particella elementare che agisce come «collante» per i protoni responsabili della carica positiva dei nuclei, che altrimenti, per repulsione elettrostatica, non potrebbero restarsene assieme. Non avendo carica elettrica (da cui il suo
nome) può venir utilizzato come efficace sonda per giungere fin nel cuore dell’atomo,
dove può venirvi catturato oppure viceversa causarne la spaccatura. Questo ha permesso di produrre tanto le bombe quanto i reattori nucleari.

Fissione nucleare

Nella fissione nucleare si parte con un nucleo di un atomo (adatto), contro cui si spara un neutrone di energia appropriata per riuscire a spaccarlo (fenomeno della fissione) con la liberazione di grandi quantità di energia. A seguito di questa rottura vengono anche liberati due o tre neutroni i quali, se si sono fatte le cose per bene (purezza dei materiali, densità adatta, …), possono indurre la fissione di altri nuclei circostanti. Si liberano così altri neutroni che possono continuare il processo, come in una valanga, fin quando tutti, o almeno una buona parte dei nuclei presenti, hanno reagito. Se la «reazione a catena» si sviluppa in modo incontrollato, selvaggio, si ha la bomba; se invece la si riesce a controllare, si può realizzare una centrale nucleare.

Combustibili fossili liquidi: petrolio.

Questo argomento può iniziare con un dato stravolgente: ogni secondo noi essere umani consumiamo circa 1.150 barili di petrolio ovvero oltre 183.000 litri ( un barile equivale a 159 litri). Ogni secondo! Riflette su questo dato. Il petrolio è la fonte energetica più importante e per alcune utilizzi è insostituibile, ma fino a quando riuscirà a far fronte alla crescente domanda di energia? Arriverà il giorno in cui la produzione di petrolio raggiungerà un picco per poi inesorabilmente diminuire con un conseguente aumento dei prezzi? C’è chi ritiene che il picco di produzione si raggiungerà tra una trentina d’anni. Alcuni studiosi prevedono scenari più ottimistici spostano questa data molto più in là nel tempo, basando le loro previsioni sull’esistenza di grandi quantità di petrolio a grandissime profondità o crede nello sfruttamento, ad esempio, delle sabbie bituminose. Altre tesi sostengono che il picco di produzione sia stato già raggiunto tra il 2005 e il 2010.

Distribuzione bacini petroliferi.


La distribuzione dei principali bacini petroliferi nel mondo non è uniforme, ma non è nemmeno casuale. Dipende, infatti, dalle condizioni geologiche necessarie alla formazione di grandi giacimenti. È necessario però specificare che è anche influenzata dalle difficoltà di esplorazione/ricerca di aree isolate e poco conosciute, come le zone caratterizzate da condizioni ambientali particolarmente severe (le vaste aree della Siberia, le aree di foresta pluviale del Sud America e aree offshore profonde).

La storia geologica del nostro Paese è molto complessa e ha dato alla penisola un assetto strutturale e sedimentario complicato e assai poco “tranquillo” ( l’Italia è una zona sismica). Questo non ha favorito la formazione di grandi ed estesi bacini petroliferi, ma ha creato localmente situazioni favorevoli alla formazione di piccole zone petrolifere di una certa importanza. I giacimenti di petrolio più importanti in Italia si trovano in Sicilia e nel suo immediato offshore (mare), in particolare il giacimento di Ragusa  e quello di Gela  e quello di Gagliano Castelferrato. Altri giacimenti, tra i più importanti, sono quelli dalla Val d’Agri in Basilicata e quello di Porto Orsini nell’Adriatico ravennate.

Petrolio greggio: Il suo nome deriva dalle due parole latine
petra=pietra e  olium=olio cioè è un olio di pietra.

APPROFONDIMENTO: microstoria del petrolio.

Il petrolio era noto fin dall’antichità più remota grazie al fatto che in alcune zone esso affiorava spontaneamente in superficie: gli Egizi ricavavano da esso la pece in cui immergevano le bende per fasciare le mummie; in Mesopotamia lo si utilizzava per impermeabilizzare le imbarcazioni; i Romani lo usavano per lubrificare le ruote dei carri; gli Indiani usavano il petrolio per curare malattie e ferite; i Cinesi e i Persiani lo usano per scopi bellici; presso molte popolazioni veniva usato come mezzo di illuminazione (lampade ad olio). Fu solo negli ultimi decenni del XIX secolo che il petrolio divenne una fondamentale fonte di energia, perché permise di risolvere il problema della propulsione dei veicoli su strada (più tardi anche gli aerei), poiché la macchina a vapore, alimentata a carbone, era troppo pesante ed ingombrante per automobili e motocicli. L’invenzione dei motori a combustione interna, agili e leggeri, alimentati da derivati del petrolio, permise di risolvere il problema. Lo sfruttamento intensivo dei giacimenti petroliferi cominciò negli Stati Uniti nel 1859, quando, per la prima volta, fu trivellato un pozzo che ne rivelò la presenza anche nel sottosuolo. All’inizio fu utilizzato per il riscaldamento e l’illuminazione, oltre che per ottenere bitume e lubrificanti. Il successivo impiego nei motori richiese la nascita di una grande industria di trasformazione, poiché il petrolio non può essere usato nei motori così come si trova. A partire alla fine del XIX secolo, agli impieghi suddetti si aggiunse l’uso del petrolio come combustibile nelle centrali termoelettriche. Si innescava quella che oggi chiamiamo Seconda Rivoluzione Industriale.

Il petrolio è una miscela di idrocarburi (perché composto da due soli elementi: il carbonio e l’idrogeno) che possono manifestarsi nei tre strati di aggregazione: solido, liquido e gassoso. Si trova generalmente dispersa entro masse rocciose porose e che contiene quantità di zolfo, azoto e ossigeno. È derivato dalla decomposizione di sostanze organiche formate da resti di organismi, accumulatisi in un ambiente per lo più marino e che costituivano nel loro insieme il plancton marino, insieme a fini sedimenti minerali, ad opera di batteri anaerobi (che operano in assenza di ossigeno). A temperatura ambiente, il petrolio si presenta come una miscela liquida infiammabile, densa e viscosa, oleosa, di colore scuro, che varia dal nero al rosso bruno a seconda della provenienza, con riflessi azzurri. l petrolio può manifestarsi spontaneamente in superficie, ma in generale viene estratto dal sottosuolo tramite pozzi ottenuti mediante trivellazioni del suolo o del fondo marino. Più leggero dell’acqua sulla quale galleggia, si trova nei piccoli spazi che esistono tra le rocce sedimentarie. Quindi possiamo immaginare un giacimento di petrolio come una spugna lunga alcuni chilometri e larga centinaia di metri, tutta impregnata di petrolio. La sua composizione media è 80% Carbonio, 10% Idrogeno, 3% Ossigeno, 4% Zolfo e 3% di Azoto.

Secondo le teorie più recenti, il petrolio si sarebbe formato nel corso di centinaia di milioni di anni per trasformazione chimica di alghe, plancton, animali e vegetali marini che si sono depositati sul fondo di acque salmastre come paludi, lagune, golfi e mari interni insieme con finissimi sedimenti minerali, come argille e sabbie formando il sapropel, una specie di “fango putrefatto”. L’instaurarsi di un ambiente privo di ossigeno, dovuto alla scarsa circolazione di acqua nei sedimenti argillosi, ha permesso a batteri anaerobi di sottrarre ossigeno e azoto alle sostanze organiche, arricchendole di carbonio e idrogeno. Successive modifiche, causate dall’aumento della pressione e della temperatura, causate dalle trasformazioni geologiche della Terra, hanno compattato e spinto il tutto a profondità maggiori. La pressione ed il calore del sottosuolo, in assenza di ossigeno, hanno favorito le reazioni chimiche da cui si originano idrocarburi liquidi e/o gassosi che hanno portato alla formazione del petrolio. Gradualmente, per effetto del peso dei sedimenti via via depositatisi, la crescente pressione ha determinato la solidificazione dei fanghi argillosi formando una roccia a grana fine: la “roccia madre petroligena”. In seguito, le rocce madri, sottoposte a elevate pressioni causate da movimenti tellurici, sono state praticamente distillate, per cui gli idrocarburi liquidi e solidi che si erano formati sono filtrati attraverso le fessure e le rocce permeabili circostanti e la risalita termina allorché gli idrocarburi hanno trovato uno sbarramento naturale rappresentato da rocce impermeabili in alto (ad esempio argille) e da vene d’acqua in basso: quelle che i geologi chiamano trappole petrolifere. A questo punto gli idrocarburi si sono accumulati nelle rocce porose (rocce magazzino) occupando tutte le cavità circostanti, secondo una precisa stratificazione la cui conoscenza è fondamentale nella prospezione dei giacimenti petroliferi. I magazzini e le trappole costituiscono i giacimenti petroliferi, che possono contenere idrocarburi solidi come i bitumi, idrocarburi liquidi come il petrolio e/o idrocarburi gassosi come il metano, sempre insieme all’acqua salmastra.

I giacimenti di petrolio sono dislocati un po’ dappertutto nel mondo, ma l’obiettivo è sempre quello di individuarne i più ricchi. La ricerca dei giacimenti petroliferi si effettua mediante diversi metodi che richiedono competenze diversificate come la geologia, la chimica e la sismologia: l’indagine geologica della superficie; il prelievo di campioni (il cosiddetto metodo del carotaggio); l’aerofotogrammetria, che consente di rilevare con rapidità i caratteri geologici e strutturali del territorio.

Per conoscere invece la successione degli strati in profondità per alcuni chilometri, ci si serve di vari metodi geofisici quali la prospezione magnetica e sismica. La localizzazione del giacimento è la prima operazione, seguita dalla determinazione della sua profondità e della sua estensione. Per la localizzazione nel sottosuolo della presenza di un giacimento, si scelgono territori ricchi di rocce sedimentarie, escludendo i territori con rocce vulcaniche o granitiche, e le fotografie aeree danno le prime indicazioni sulle caratteristiche geologiche del territorio. Altre preziose informazioni vengono fornite dall’analisi del terreno: con l’aiuto di sonde si prelevano, a diverse profondità, campioni di roccia cilindrica, detti “carote”. Dopo queste indagini preliminari, si utilizzano diversi sistemi di ricerca per individuare in modo più preciso la presenza di una trappola. Si possono, ad esempio, rilevare e studiare le variazioni della densità e del campo magnetico del terreno. Ciò consente di avere a disposizione dati significativi sulle caratteristiche del sottosuolo.

Un altro metodo di indagine del sottosuolo, con lo scopo di individuare quelle zone in cui è alta la probabilità di individuare un giacimento, è quello di effettuare l’analisi sismologia del terreno: l’analisi viene fatta provocando artificialmente onde sismiche nel sottosuolo, molto simili a quelle originate dai terremoti, facendo esplodere delle cariche e registrando i tempi impiegati dagli strati rocciosi a riflettere le onde con l’ausilio di strumenti chiamati geofoni. L’interpretazione dei dati raccolti permette la ricostruzione della struttura stratigrafica del terreno, in modo da delineare l’andamento dei vari strati rocciosi profondi e l’individuazione di ipotetici giacimenti. Per verificare la presenza del giacimento e permettere la successiva estrazione del petrolio è necessario scavare pozzi nel terreno e perforare la roccia che lo racchiude.

Solo dopo che i risultati delle ricerche sono stati esaminati a fondo, si decide di procedere all’esecuzione di pozzi di prova, si stabilisce la loro collocazione ed ha inizio la trivellazione di pozzi profondi anche qualche migliaio di metri, che raggiungono e superano gli strati di rocce impermeabili. Il primo pozzo petrolifero venne scavato da Edwin L. Drake in Pennsylvania, nell’agosto del 1859; da allora sono state eseguite milioni di trivellazioni, la maggior parte delle quali si trovano sulla terraferma, ma sono ormai numerose anche le piattaforme marine, collocate in zone un cui la profondità dl mare è limitata a 100–200 metri (in alcuni giacimenti si sono raggiunti e superati anche i mille metri di profondità). Per la trivellazione del pozzo si usa una sonda, costituita da una colonna di aste di acciaio cave alla cui estremità inferiore è avvitato un utensile da taglio, che può essere uno scalpello se il terreno da perforare è tenero, oppure rulli dentati conici i cui denti, se le rocce sono molto dure, sono costituiti da diamanti industriali o da carburo di tungsteno. Man mano che la perforazione prosegue, si aggiungono verticalmente altre aste, lunghe circa 9 metri, collegate fra loro con speciali manicotti. La batteria di aste è messa in rotazione da una piattaforma rotante a 100-250 giri al minuto collocata alla base della torre di perforazione “Derrick” (tipica torre a traliccio sopra il pozzo) ed azionata da potenti motori diesel, che forniscono l’energia meccanica necessaria. Al centro della torre gira la tavola rotante (sistema Rotary) che somiglia ad un tombino di fognatura di grandi dimensioni: quest’ultima presenta al centro un’apertura in cui passa verticalmente una grossa asta di acciaio cava. Quando la tavola rotante è messa in movimento dai motori diesel, anche questa asta, detta Kelly, gira.

Schema di pozzo di trivellazione.

Durante la trivellazione, un apposito fango di circolazione viene pompato all’interno delle aste cave, che scende fino allo scalpello e fuoriesce attraverso fori praticati nello scalpello, il fango poi risale in superficie nella intercapedine tra aste e pareti del pozzo fino ad un bacino superficiale dove viene filtrato e rimesso in circolo da una pompa di ciclo ininterrotto. Il fango di circolazione serve sia a raffreddare e lubrificare le punte dello scalpello sia a portare in superficie i frammenti di roccia e i detriti delle perforazioni, sia a consolidare le pareti del pozzo.La sagoma alta della torre è di notevole altezza per consentire il sollevamento di tre aste alla volta ogniqualvolta sia necessario sostituire lo scalpello, che si logora in breve tempo. Scoperta la falda petrolifera, cioè scoperto il giacimento, le aste e la sonda vengono estratti dal pozzo ed i pozzi vengono rivestiti con tubi alla cui estremità viene raccordato un sistema di condotte e valvole detto “albero di natale”, che regolano il flusso del petrolio greggio che esce dal pozzo. Finché la pressione all’interno del giacimento è maggiore di quella atmosferica, il petrolio sale spontaneamente, ma lo sfruttamento fa calare la pressione e, quando questa diventa inferiore rispetto alla pressione atmosferica, per portarlo in superficie, occorre adoperare delle pompe aspiranti. Le ricerche petrolifere effettuate in mare aperto hanno dimostrato la presenza di giacimenti sotto il fondo marino, ma la realizzazione di impianti per il loro sfruttamento è tecnologicamente complessa e costosa. Se il fondale è basso, si costruiscono piattaforme solidamente ancorate al fondo, sostenute da piloni in ferro, e la perforazione avviene come in terraferma; se la profondità del fondale è invece elevata, si costruiscono piattaforme galleggianti e rimorchiabili (jack up) o semi-sommergibili che, pur essendo ancorate, possono compiere ampi spostamenti. In questo secondo caso le tecniche di perforazione sono particolarmente complesse. Il petrolio estratto dal giacimento si chiama greggio ed è una sostanza molto densa ed oleosa, poco infiammabile, che non può essere usata direttamente. Il processo che permette l’uso di questa sostanza si chiama raffinazione.

Ma quanto è grande un pozzo di petrolio?

Dopo l’estrazione, il petrolio viene separato dal gas, dai detriti e dall’acqua  salata, con cui è miscelato nei giacimenti e viene trasportato mediante lunghissime tubazioni (oleodotti o pipeline, in inglese) nei centri di stoccaggio o di decantazione, dove viene immagazzinato in grandi serbatoi cilindrici o sferici e da qui, o con oleodotti o via mare con grandi navi petroliere, viene trasportato ai luoghi di raffinazione (raffinerie).

Il petrolio, una volta estratto dal giacimento, viene immesso in un sistema di tubazioni chiamato oleodotto (pipeline) per poter essere trasportato alle raffinerie o ai porti di imbarco. L’oleodotto è costituito da tubi in acciaio saldati, il cui diametro può giungere fino a 90 centimetri. Essi per lo più vengono interrati e possono coprire anche lunghe distanze. Stazioni di pompaggio spingono il petrolio che scorre all’interno dei tubi. La realizzazione di un oleodotto richiede uno studio approfondito del terreno in cui va collocato, per stabilire il percorso più agevole da far seguire alle tubature, e una continua manutenzione per prevenire guasti o riparare eventuali perdite. Giunto ai porti di imbarco il greggio viene caricato su petroliere o navi cisterna che, in seguito, lo trasporteranno alle raffinerie. Nella seconda metà degli anni ’60 vennero costruite gigantesche navi, che potevano trasportare, in una sola volta, quantità di petrolio anche superiori alle 500.000 tonnellate. La tecnologia che ha permesso simili progressi ha reso però più gravi, sul piano ecologico, le conseguenze di possibili incidenti. Si ricorda, tra gli incidenti più gravi, quello che ha coinvolto la petroliera Exxon Valdez, che la notte del 24 marzo 1989 ha urtato contro uno scoglio sottomarino. Dalla stiva danneggiata uscirono 40 milioni di litri di greggio che, disperdendosi in mare, contaminarono una superficie di circa 3.000 km 2 , lungo le coste dell’Alaska. Da allora sono state migliorate le tecniche necessarie a contenere ed eliminare le chiazze di petrolio riversate in mare a causa di avarie delle petroliere, ma si è ancora ben lontani da una soluzione definitiva del problema. Il ripetersi di incidenti, con gravi conseguenze sul piano ecologico, ne è la triste dimostrazione.

APPROFONDIMENTO: le compagnie petrolifere

La ricerca e l’estrazione del petrolio sono operazioni molto costose, che richiedono impianti e tecnologie avanzate. La prima serie di ricerche si sviluppò negli Stati Uniti, ad opera di grandi compagnie petrolifere che possedevano attrezzature e capitali. Successivamente le compagnie ottennero concessioni da parte di altri Paesi produttori, in cambio di una percentuale sul greggio estratto. Da qui nacque la fortuna delle società petrolifere multinazionali. Le principali furono sette, soprannominate le “sette sorelle”: Exxon, Texano, Mobil, Chevron e Gulf (di origine americana), Shell e BP (di origine europea). Nel 1960, cinque paesi produttori (Venezuela, Iraq, Iran, Kuwait e Arabia Saudita) diedero vita all’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Questa organizzazione, che in seguito si è estesa ad altri Paesi, si proponeva di stabilire un accordo sulla quantità di petrolio da esportare e sul prezzo del barile (il barile è un’unità di volume corrispondente a 159 litri). La crisi energetica del 1973 portò ad un consistente aumento del prezzo del petrolio, che da 4$ al barile salì oltre i 10$, con punte di 44$. Ciò ha reso economicamente possibile lo sfruttamento di nuovi bacini, come quelli, per esempio, del Mare del Nord, da cui in precedenza sarebbe stato troppo costoso estrarre questo idrocarburo. Dagli anni ’70, la quantità di petrolio sul mercato è dunque aumentata e, come per ogni merce, questo ha portato a riassestare il suo prezzo verso il basso. Anche in questo caso gli effetti non hanno tardato a farsi sentire. Due sono state le conseguenze più rilevanti: da una parte la crisi dei Paesi dell’OPEC la cui economia è fondamentalmente basata su questo prodotto, dall’altra la fusione dei tradizionali colossi della produzione. Infatti, per contenere le spese di produzione ed avere ancora un buon margine di guadagno, le grandi compagnie multinazionali si sono fuse tra loro: Exxon con Mobil, BP con Amoco, Shell con Royal Dutch, Total con Fina.

E’ un impianto di grandi dimensioni, diviso in tre blocchi distinti: cisterne per lo stoccaggio del greggio, cisterne per il prodotto finito e torri per le diverse lavorazioni. Queste tre parti sono tra loro collegate mediante tubi che permettono una lavorazione a ciclo continuo. Il petrolio greggio, essendo una miscela di idrocarburi, non è utilizzabile nella sua forma greggia, appena estratto dai giacimenti, ma deve essere sottoposto ad un processo di raffinazione, che consiste nella sua trasformazione in un certo numero di derivati di cui forse il più noto è la benzina. Per ottenere i diversi prodotti derivati dal petrolio, si procede inizialmente alla distillazione frazionata per separarne tagli (o frazioni) da destinare a vari usi: la distillazione è un processo che comporta la vaporizzazione e la condensazione del petrolio greggio. Segue poi la distillazione dei residui e quindi il processo di cracking ed il processo di reforming.

La distillazione del petrolio viene effettuata in speciali colonne chiamate colonne di frazionamento (colonne di topping), alte fino ad 80metri, dopo averlo preriscaldato ed in parte vaporizzato a 350-400°C in speciali forni a serpentina chiamati pipe-still. Nella colonna di topping la temperatura è molto alta alla base e diminuisce via via che ci sia avvicina alla cima e il petrolio, attraversando la colonna dal basso verso l’alto, incontra una serie di ripiani, detti piatti, di acciaio sulla cui superficie avvengono scambi termici che portano le frazioni più volatili a separarsi da quelle meno volatili. Ogni piatto è mantenuto ad una specifica temperatura, che è sempre più bassa man mano che si risale la colonna. Ogni piatto contiene molti fori, muniti di camino e di campanella. I vapori, quando toccano la campanella che corrisponde alla temperatura della propria condensazione, diventano liquidi. In questo modo, inserendo speciali condotti a diverse altezze nella colonna, possono essere grossolanamente raccolte varie frazioni bollenti a differenti intervalli di temperatura, dalle quali con particolari processi di distillazione, si ottengono nuove frazioni sempre più specifiche di idrocarburi. Alle temperature più elevate (quindi nella parte bassa della colonna di topping) si condensano gli idrocarburi più pesanti: il gasolio e il cherosene. Più in alto, a minori temperature di condensazione, si ottengono nafta, benzine leggere e gas. Per poter aumentare la quantità di prodotti di più largo uso, come la benzina, si praticano ulteriori trattamenti sui distillati pesanti. Infatti, utilizzando forti pressioni ed alte temperature, si spezzano le molecole degli idrocarburi pesanti, ottenendo frazioni più leggere. Questo procedimento prende il nome di cracking (to crack= spezzare). Le tre colonne laterali nelle quali avvengono le distillazioni si chiamano colonne di stripping. Queste colonne sono poste in serie e la frazione volatile uscente dall’ultima viene riconvogliata nella colonna di topping. Dalle tre colonne di stripping si isolano, partendo dal basso verso l’alto, rispettivamente: gli oli lubrificanti e gli oli combustibili, con punto di ebollizione, tra i 250°C e o 300 °C; il cherosene e il gasolio, le frazioni medie, con punto di ebollizione tra i 180 e 260 °C; gli olii leggeri, di prima distillazione, con punto di ebollizione tra i 160°C e i 180 °C. Dalla testa della colonna di topping, si ottengono vapori che, opportunamente condensati, danno una ulteriore frazione liquida che bolle a circa 100°C (benzine leggere) ed una frazione gassosa che, opportunamente trattata, dà luogo ai cosiddetti gas di petrolio liquefatti (GPL). In sintesi, queste colonne sono utilizzate per rimuovere componenti volatili residui dalle frazioni ottenute nella distillazione frazionata. Le quantità delle singole frazioni ottenute con la distillazione primaria differiscono in modo sensibile secondo la natura del greggio utilizzato, ma in genere il rapporto quantitativo tra esse non corrisponde alle richieste del mercato: quasi tutti i greggi sono infatti relativamente poveri di prodotti leggeri, più pregiati e richiesti.

Poiché gli idrocarburi ad alto punto di ebollizione hanno valore commerciale relativamente minore delle benzine e dei gas combustibili, è stato messo a punto un processo termo-chimico che permette la scissione (rottura – Cracking) delle lunghe catene degli idrocarburi ad alto peso molecolare (oli medi e pesanti) per ottenere molecole più semplici, dando luogo sia ad oli leggeri sia ad idrocarburi gassosi. In questo modo non solo viene raddoppiata la resa in benzina, che è il prodotto più richiesto tra i derivati dal petrolio, ma si ottengono anche altri sottoprodotti di lavorazione di notevole interesse commerciale. Questo è il processo che si usa maggiormente per ottenere benzine pregiate.

Il reforming è un processo associato al cracking che permette di ottenere benzine ancora più pregiate.

Il petrolio è costituito da una miscela di sostanze (idrocarburi) composte per lo più da idrogeno e carbonio. Secondo la tesi più diffusa, il petrolio si è formato in epoche preistoriche a seguito della trasformazione dei residui di piante e animali che, dopo la morte, si depositarono sul fondo del mare mescolandosi a fango e sabbia e formando successivi strati di sedimento marino. Con il passare dei millenni, il calore e la pressione hanno trasformato tali i residui in un liquido denso e oleoso.

Il petrolio è sempre legato alla presenza di sedimenti marini, ragione per cui la ricerca di giacimenti avviene in zone che in passato erano ricoperte dal mare. In genere, lo si trova raccolto in sacche di roccia impermeabile che possono assumere varie forme l’anticlinale, formato da strati di roccia di forma arcuata, che costituisce la maggior parte dei campi petroliferi del mondo;

la faglia, costituita da una frattura degli strati rocciosi, che porta uno strato impermeabile a imprigionare un altro strato contenente petrolio; la trappola stratigrafica dove, tra strati inclinati di roccia, è racchiuso il petrolio.

Poiché i giacimenti si trovano nel sottosuolo, sono impiegati diversi sistemi di ricerca per individuarli con precisione prima di scavare i pozzi. Ogni sistema di esplorazione può essere utilizzato insieme ad altri, in modo da fornire il maggior numero di informazioni sulla composizione del sottosuolo.

Esplorazione sismica. Si attua mediante l’esplosione di cariche poste nel sotto- suolo. Le onde d’urto colpiscono gli strati di roccia e rimbalzano in superficie, dove sono registrate da sismografi che misurano le vibrazioni del terreno. Il tempo impiegato dalle onde sismiche indica la natura della roccia, la profondità e la possibile presenza del petrolio.

Esplorazione magnetica. È basata sulla diversa quantità di ferro contenuto nelle rocce. Le rocce sedimentarie nelle quali si trova il petrolio contengono meno ferro e pertanto presentano un minor grado di magnetismo. Questo può essere rilevato con strumenti (magnetometri) che, trasportati mediante aero- plani, permettono di esplorare vaste zone.

Esplorazione sottomarina. La ricerca si effettua con metodi simili a quelli usati sulla terraferma. Particolarmente usato è il sistema sismico realizzato da due battelli: uno fa esplodere le cariche, l’altro registra le onde di ritorno con speciali sismografi.

Quando la zona del giacimento petrolifero è individuata, si esegue la trivellazione. Per prima cosa si costruisce una torre in traliccio di acciaio per sostenere le aste a sezione quadrata alla cui estremità si trova lo scalpello che scava nel terreno. Le aste sono fatte ruotare da un motore e, a mano a mano che lo scalpello penetra nel terreno, si aggiungono nuovi elementi, fino a ottenere una lunga sequenza di aste unite tra loro. Per facilitare la fuoriuscita del materiale di scavo, all’interno delle aste si pompa un fango molto fluido che scende fino al fondo dello scavo e risale all’esterno dell’asta trascinando in superficie la terra. L’estrazione del petrolio avviene quando la trivellazione raggiunge il giacimento. Il petrolio, per effetto della pressione a cui è sottoposto, risale lungo il pozzo e affiora con violenza in superficie. Per tale ragione, occorre predisporre un sistema di tubi e valvole di regolazione che permettano al pozzo di fornire il petrolio con un flusso continuo e costante e con pressione non troppo elevata La perforazione dei giacimenti sottomarini avviene sistemando tutte le apparecchiature su piattaforme galleggianti, ancorate cioè al fondo, oppure appoggiate sul fondo per mezzo di strutture metalliche (nel caso in cui le profondità non superino alcune decine di metri)

Il calcestruzzo armato.

Il calcestruzzo armato è un materiale, composto da calcestruzzo e tondini di acciaio, che presenta una notevole resistenza alla compressione per cui è utilizzato per realizzare gran parte delle opere edili.

Il cemento armato, o più propriamente calcestruzzo armato, è uno dei materiali utilizzati per la realizzazione di opere civili sia nel settore delle infrastrutture e quindi: ponti, gallerie, dighe, strade, ferrovie, etc.; sia nel settore dell’edilizia e quindi edifici sia residenziali che industriali.

Materiale composito

Il calcestruzzo armato è un materiale composito e come tale costituito dall’unione di due elementi:

  • Calcestruzzo. Miscela di: legante, sabbia, ghiaia ed acqua.
  • Armatura. Tondini di acciaio (in percentuale molto contenuta se paragonata a quella del calcestruzzo) con diametro solitamente < 3 centimetri sagomati ed interconnessi sino a formare una sorta di gabbia.

L’armatura è annegata nel calcestruzzo fluido che a sua volta è contenuto in una sorta di stampo che è la cassaforma. Dopo il getto del cls (acronimo di calcestruzzo) la cassaforma va lasciata per circa 48/72 ore (a seconda della stagione, dell’areazione e di altri fattori), ovvero fino a quando il getto abbia conseguito una resistenza meccanica tale da garantire l’assorbimento delle sollecitazioni a cui la struttura è sottoposta subito dopo il disarmo. A questo punto la cassaforma perde la sua funzione e può essere rimossa perché la struttura è ormai in grado di autoportarsi. Fino ad un po’ di tempo fa l’unico modo per costruire un muro in c.a era attraverso delle casseforme in legno, al cui interno erano già predisposti i ferri e le staffe della rete metallica, per trattenere il calcestruzzo al momento della gettata. Il legno infatti è sempre stato un materiale semplice da lavorare e da sagomare, leggero da manovrare in cantiere e traspirante. Tuttavia ha lo svantaggio di non poter essere utilizzato per più di due o quattro volte in quanto si impregna e perde il suo potere traspirante.
A partire dalla metà del Novecento si sono cominciati a sviluppare nuovi sistemi di casseforme con l’obiettivo di industrializzare il cantiere ed aumentarne l’efficienza produttiva. Anche i materiali per le casseforme sono aumentati infatti oggi si possono realizzare con pannelli metallici, pannelli a base di polistirolo espanso o altri materiali.

Casseforme in legno
Casseforme in PVC
Casseforme riutilizzabili

Il cemento armato nasce dall’esigenza di dover aumentare la resistenza agli sforzi di trazione del calcestruzzo che di base già possiede una ottima resistenza alla compressione. Si sviluppa così l’idea di inserire, ove necessario, all’interno della miscela, tondini di acciaio (materiale con ottima resistenza alla trazione). La perfetta aderenza tra il calcestruzzo e le barrette di acciaio fa si che le sollecitazioni di trazione interne al calcestruzzo si trasferiscano totalmente allo scheletro in metallo che le neutralizza, mentre quelle di compressione saranno sopportate dalla massa del calcestruzzo stesso.

Tondini ad aderenza miglioarata.

Per aumentare l’aderenza del calcestruzzo all’armatura si utilizzano dei tondini non perfettamente lisci ma con risalti in superficie.

Non esiste una formula precisa della composizione del calcestruzzo che dipende dalla quantità e qualità dei materiali.

Comunque sia le proporzioni che mediamente sono più utilizzate per preparare un metro cubo di calcestruzzo per usi comuni quali preparazioni di un massetto o getto di una muratura (rapporto acqua/cemento=0,4) sono:

  • Cemento 300 Kg.
  • Acqua 120 litri pari a 120 Kg.
  • Sabbia 0,4 metri cubi.
  • Ghiaia 0,8 metri cubi.

I materiali che costituiscono l’impasto iniziale del calcestruzzo influenzano le caratteristiche finali del calcestruzzo indurito e quindi il suo utilizzo.

I materiali che costituiscono l’impasto iniziale del calcestruzzo influenzano le caratteristiche finali del calcestruzzo indurito e quindi il suo utilizzo.

Vediamo nel dettaglio:

  • Cemento: il legante idraulico che costituisce il componente attivo del calcestruzzo.
  • Acqua. L’acqua, combinandosi con il cemento nel fenomeno dell’idratazione, da luogo alla “presa” che trasforma l’impasto in una massa solida. Tuttavia l’acqua deve svolgere anche la funzione di lubrificante nell’impasto, rendendolo sufficientemente fluido da essere lavorabile. Per questo motivo l’acqua impiegata nell’impasto deve essere in quantità superiore a quella strettamente necessaria per l’idratazione del cemento. Peraltro si deve tenere presente che all’aumentare dell’eccesso di acqua peggiorano sensibilmente le caratteristiche meccaniche del calcestruzzo.  L’acqua da usare nell’impasto deve essere il più possibile pura, quando è possibile si consiglia quindi l’uso di acqua potabile. In particolare devono essere evitate acque contenenti percentuali elevate di solfati e le acque contenenti rifiuti di origine organica o chimica. La presenza di impurità infatti interferisce con la presa, provocando una riduzione della resistenza del conglomerato.
  • Inerti. Sono materiali minerali granulari di origine rocciosa aventi differenti diametri. Gli inerti più comunemente utilizzati per la preparazione del calcestruzzo sono:
    • Sabbia ossia roccia sedimentaria sciolta con granuli di dimensioni comprese tra 0,06 mm e 4 mm;
    • Ghiaia ossia roccia frantumata e arrotondata naturalmente per effetto dell’erosione con dimensioni variabili tra 4 e 40 mm;
    • Pietrisco ovvero roccia frantumata artificialmente di dimensioni variabili tra i 5 e i 50 mm.

Nella preparazione dell’impasto di base del calcestruzzo la granulometria va sapientemente miscelata tra fine e grossolana allo scopo di riempire il più possibile gli spazi tra elementi contigui e ridurre quanto più è possibile il volume dei vuoti che mina la resistenza meccanica del calcestruzzo indurito.

Se gli inerti fossero composti da granuli della stessa misura, nella massa del calcestruzzo si avrebbero numerosi vuoti, che solo in parte potrebbero essere occupati dal cemento.

  • Additivi. Non sempre sono presenti. Quando fanno parte dell’impasto hanno il compito di migliorare alcune sue prestazioni sia quando esso è fluido sia quando è indurito.

Il calcestruzzo armato può essere realizzato:

  • in fabbrica come moduli prefabbricati (pilastri, solai, panelli di pareti, etc.) che saranno poi assemblati sul luogo della costruzione;
  • in cantiere ossia direttamente sul luogo della costruzione con una gettata del calcestruzzo nella cassaforma in cui si è precedentemente montata l’armatura.

E’ evidente che il materiale realizzato in cantiere ha un controllo delle caratteristiche più approssimato di quello dei moduli prefabbricati.

Si ricorre ai moduli prefabbricati ad esempio quando le condizioni climatiche possono essere tali da pregiudicare il meccanismo di presa ed indurimento del calcestruzzo (esempio temperature inferiori ai -5°C) o quando la struttura da realizzare richiede un preciso controllo delle quantità dei suoi componenti.

La sinergia tra calcestruzzo e armatura in acciaio conferiscono al cemento armato una varietà di proprietà meccaniche e fisiche tali da renderlo il materiale più utilizzato in edilizia.

Le sue caratteristiche più comuni sono:

  • Buona resistenza delle opere con esso realizzate alle varie tipologie di sollecitazioni strutturali a cui potranno essere sottoposte e quindi resistenza alle sollecitazioni di compressione e trazione, ma anche resistenza a flessione e torsione;
  • Ottima durabilità delle strutture con esso realizzate. Per un certo tempo si è addirittura pensato che esse fossero indistruttibili. In realtà anche il calcestruzzo armato subisce l’attacco chimico dei sali contenuti nell’acqua, degli inquinanti atmosferici, dalla salsedine marina, etc., fattori che a lungo andare tenderanno a disgregarlo. Condizione indispensabile per una sua buona durata è che i ferri dell’armatura siano completamente ricoperti dall’impasto di calcestruzzo. Infatti, quando detta copertura è imperfetta l’armatura metallica tenderà ad ossidarsi (la ruggine). Il processo di ossidazione determina un aumento del suo volume e la condizione induce tensioni nella struttura che tenderà a disgregarsi.
  • Buona resistenza al fuoco. Il calcestruzzo armato ha una ottima resistenza al fuoco.
  • Buona monoliticità delle strutture realizzate. Una volta che è trascorso il periodo di stagionatura minima che è di 28 giorni il calcestruzzo armato assume una compattezza simile a quella di un unico blocco di roccia dotato di elevata durezza.
  • Possibilità di realizzare strutture con forme scarsamente vincolate. La fluidità del calcestruzzo appena impastato e la possibilità di poter sagomare a piacimento casseforme e tondini della gabbia consentono di realizzare strutture con linee particolarmente ardite.

  • Facile reperibilità ed economicità dei componenti elementari del calcestruzzo armato (cemento di Portland, sabbia, ghiaia, tondini di acciaio).
  • Relativa facilità e rapidità nell’esecuzione anche in ambienti difficili ed utilizzando mano d’opera non eccessivamente specializzata.

Tutte le caratteristiche fin qui elencate costituiscono i vantaggi del cemento armato rispetto agli altri materiali di costruzione equivalenti.

Tuttavia ad  esse bisogna aggiungere le rimanenti caratteristiche che costituiscono i contro e precisamente:

  • Peso elevato. Il calcestruzzo armato ha un peso specifico consistente e quindi per poter soddisfare alle prestazioni desiderate le strutture dovranno avere un peso consistente.
  • Isolamento termoacustico scadente. Il cemento armato come il calcestruzzo ha scarsa attitudine a bloccare i flussi di calore che lo attraversano ed attenuare/bloccare le onde sonore.
  • E’ poroso e teme l’umidità di risalita per capillarità e pertanto se le strutture realizzate (fondamenta, pilastri, solai) poggiano su terreni interessati da falde acquifere o eccessivamente umidi richiedono interventi impermeabilizzanti con cemento osmotico.
  • Calcolo progettuale delle strutture non semplice e comunque, per ottemperanza alle norme, a cura di tecnici abilitati.
  • Difficoltà di smaltimento ed eventuale recupero dei componenti di base alla demolizione della struttura.

Come si è già accennato il calcestruzzo armato è largamente utilizzato in edilizia soprattutto quando si è iniziato a costruire con dei precisi canoni per contrastare i possibili effetti di eventuali terremoti. È talmente tanto usato che è possibile affermare che praticamente non esiste costruzione che non abbia almeno una parte, seppure piccola, realizzata con esso. A mo’ di esempio riporto solo alcuni degli utilizzi più comuni: